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Il Piano Juncker e l'Unione dell'energia

Olimpia Fontana
26 maggio 2015

 

Da quando il piano Juncker è stato presentato lo scorso novembre molti dubbi sono stati sollevati circa gli aspetti quantitativi di tale intervento: è giusto finanziare la dotazione iniziale del piano sottraendo risorse al già ristretto budget comunitario? L’intervento da parte della Banca europea degli investimenti (Bei) sarà sufficiente ad attirare ingenti capitali dal settore privato? Per il momento, i numeri sui primi progetti approvati nei giorni scorsi dalla Bei parlano di 300 milioni di euro di contributi pubblici, che saranno in grado di mobilitare risorse del settore privato per 850 milioni. Il famoso effetto leva di 15, attraverso il quale per ogni euro di capitale messo a disposizione dalle istituzioni comunitarie si dovrebbero mobilitare 15 euro dal settore privato, sembra ancora lontano dal realizzarsi. Tuttavia, al di là delle critiche sulla reale capacità finanziaria del piano, poca attenzione è stata rivolta ai contenuti dell’intervento: quali settori devono essere considerati prioritari nel piano Juncker?

La Commissione europea ha definito che i settori supportati dal Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) nell’ambito del piano saranno quello delle infrastrutture, dell’istruzione, della ricerca e innovazione, delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. La lista di progetti che sono stati presentati dagli Stati membri e che sono candidati a ricevere i finanziamenti del Feis comprende più di 2.000 proposte. Di queste, circa il 44% sono progetti low-carbon, nell’ambito dei trasporti (19%), delle energie rinnovabili (10%) e delle infrastrutture (7%). Una quota consistente di attività, però, è ancora incentrata su tecnologie legate al carbonio (20%) e al nucleare (6%). Se si guarda al contesto mondiale, poi, emerge, secondo i dati di UNEP, l’agenzia dell’ONU per l’ambiente, che l’anno scorso la crescita del settore delle rinnovabili è stata solamente dell’1% in Europa, a fronte di un incremento del 17% su scala globale.

Questa situazione va corretta, per centrare l’obiettivo di lungo periodo, stabilito dal Consiglio europeo nel 2011, di ridurre le emissioni di gas serra di almeno l’80% entro il 2050 rispetto ai valori del 1990. Finanziare attività a elevato contenuto di carbonio può rivelarsi una scelta sbagliata, col rischio di investire in infrastrutture che verranno dismesse nei prossimi anni a causa di un cambiamento della domanda di energia e delle abitudini di consumo delle persone. La produzione di massa delle auto elettriche è attesa per il 2025 e le batterie domestiche per l’immagazzinaggio casalingo dell’energia solare saranno presto vendute in Germania. Le nuove tecnologie spingono verso un paradigma energetico pulito e il concetto di economia circolare (produzione-uso-disassemblaggio-riuso) sta soppiantando quello di economia lineare (produzione-uso-rifiuto). La transizione energetica dell’Europa verso un modello a basse emissioni di carbonio deve costituire, quindi, la priorità nell’ambito del piano Juncker, per almeno tre buone ragioni.

Innanzitutto, il mercato delle rinnovabili è soggetto a barriere che ne impediscono lo sviluppo. Gli ostacoli riguardano, ad esempio, la fase di commercializzazione, laddove le innovazioni green devono competere con tecnologie mature e con i colossi della produzione e distribuzione di energia tradizionale. Oppure, l’incapacità di internalizzare i benefici che derivano dall’uso delle rinnovabili: coloro che ne scelgono l’utilizzo sostengono da soli dei costi, ma producono benefici, in termini di mancato inquinamento, per l’intera comunità. Le energie rinnovabili soffrono quindi dei tipici problemi dei beni pubblici, pertanto deve essere il settore pubblico a intervenire per incoraggiarne lo sviluppo. E il Feis lo prevede: i prestiti elargiti dalla Bei devono indirizzarsi verso progetti in condizioni sub-ottimali di investimento, che non verrebbero altrimenti finanziati.

In secondo luogo, va considerato l’impatto che il settore low-carbon può avere in termini di crescita e occupazione. In letteratura è dimostrato che quello dell’energia rinnovabile è un settore a maggiore intensità di lavoro rispetto a quello dei combustibili fossili, a parità di produzione di energia. Investire in energia rinnovabile può quindi contribuire alla creazione di posti di lavoro e ciò vale soprattutto quando le condizioni macroeconomiche versano in condizioni di sotto-utilizzo delle risorse. Secondo il direttore dell’Agenzia europea dell’ambiente Hans Bruyninckx, in Europa a partire dal 2008 a crescere più velocemente in termini di investimenti, brevetti e competitività sono state proprio le attività che si sono concentrate sull’efficienza energetica, sulle eco-tecnologie e sull’eco-innovazione, mentre i green jobs sono aumentati da 2,8 a 4,1 milioni.

Infine, va ricordato che proprio Juncker, allora candidato Presidente della Commissione europea, nel suo discorso al Parlamento europeo, il 15 luglio 2014, aveva indicato che intendeva “riformare e riorganizzare la politica energetica europea per creare una nuova Unione europea dell’energia”. Il Consiglio europeo, nelle “Conclusioni” della riunione del 23-24 ottobre 2014, ha ricordato “l’obiettivo di costruire un’Unione dell’energia che assicuri un’energia a prezzo accessibile, sicura e sostenibile, come indicato nella sua agenda strategica, e [che] terrà sotto costante esame l’attuazione di questo obiettivo”. Il 25 febbraio scorso la Commissione ha presentato un importante e ambizioso “Pacchetto ‘Unione dell’energia’”, che definisce “Una strategia quadro per un’Unione dell’energia resiliente, corredata da una politica lungimirante in materia di cambiamenti climatici”.

Ancora oggi, una delle debolezze del settore riguarda l’approccio individualistico degli Stati alla politica energetica. Basti pensare che tuttora ciascuno Stato membro negozia individualmente con i vari fornitori extracomunitari il proprio approvvigionamento energetico, e che non esistono riserve energetiche strategiche comuni e neppure un vero e proprio mercato europeo dell’energia, né reti energetiche transfrontaliere efficienti. Inoltre, lo scorso ottobre il Consiglio europeo ha deciso che gli obiettivi di riduzione del 40% delle emissioni di gas-serra e di utilizzo di fonti rinnovabili almeno per il 27% del fabbisogno sono vincolanti solo per l’Unione nel suo insieme, ma non a livello dei singoli Stati membri.

L’Unione dell’energia può svolgere due funzioni importanti: sancire la definitiva transizione verso la decarbonizzazione dell’economia e rilanciare i principi di solidarietà e fiducia, ponendoli al centro della politica energetica. In un’Unione in cui gli Stati membri sono sempre più divisi a causa degli effetti della crisi economica, l’Unione dell’energia può essere l’occasione per tornare a parlare di un’azione comune, laddove il clima e la sua conservazione sono emergenze che riguardano tutti allo stesso modo. E il piano Juncker potrebbe contribuire attivamente a questo cambiamento. Si tratterebbe di abbandonare, in fase di selezione, quella parte di progetti che fanno ancora uso di tecnologie a elevata emissione di carbonio e incrementare gli investimenti nel settore delle rinnovabili. In vista della Conferenza di Parigi sul clima, che si terrà a dicembre, se l’Europa vuole porsi in modo credibile come leader mondiale nella riduzione di emissioni di gas serra deve portare avanti una politica di investimenti coerente con l’ambizioso progetto di transizione energetica che ha deciso di darsi.

 * Ricercatrice del Centro Studi sul Federalismo

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