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Dopo la caduta del prezzo del petrolio, è l'ora della Carbon Tax

Alberto Majocchi
19 gennaio 2015

In poco più di un anno, dal 2 gennaio 2014 al 12 gennaio 2015, il prezzo del Brent è sceso da $107,78 a $47,44, con una riduzione di oltre il 55%. In un periodo in cui l’economia europea soffre di una grave crisi recessiva e lo spettro della deflazione attende di essere affrontato con coraggiose decisioni da parte della Banca centrale europea, la riduzione del costo dell’energia dovrebbe rappresentare uno shock positivo dal lato dell’offerta e favorire un rilancio della produzione. Il problema è che l’Europa soffre soprattutto oggi di una carenza di domanda effettiva e le misure che agiscono solo dal lato dell’offerta non sono sufficienti. Ma la riduzione del prezzo del petrolio dovrebbe altresì rappresentare l’occasione propizia a livello europeo per l’adozione di importanti decisioni al fine di disporre di strumenti adeguati in tema di lotta ai cambiamenti climatici e per avviare la transizione verso un’economia sostenibile.

L’Unione europea ha assunto da tempo la leadership in questo campo. Il Consiglio europeo del 23-24 ottobre 2014 ha definito un’ambiziosa strategia in relazione ai problemi del clima e dell’energia. In particolare, rimanendo fermo l’obiettivo fissato nel 2007 di ridurre del 80% le emissioni di CO2 entro il 2050, il Consiglio ha deciso: a) una contrazione pari al 40% delle emissioni dei gas-serra nel 2030 rispetto al 1990. La riduzione annuale del tetto alle emissioni nell’ambito dell’Emission Trading System (ETS) sarà portata dal 1,74% al 2,2% nel 2020. Le emissioni da parte dei settori ETS dovranno ridursi del 43% rispetto al 2005, mentre la riduzione sarà del 30% per i settori che non rientrano nell’ETS; b) la quota delle energie rinnovabili sul consumo totale di energia dovrà raggiungere il 27% nel 2030; c) si dovrà conseguire un incremento dell’efficienza energetica del 27%, da rivedere in aumento al 30% nel 2020.

Ma il problema principale risiede nell’efficacia degli strumenti utilizzati per raggiungere questi obiettivi. Dal 2005 nell’ambito dell’Unione è in funzione l’ETS, che copre circa il 45% delle emissioni e si applica a circa 11.000 impianti energy-intensive nella produzione di energia elettrica e nell’industria manifatturiera. Si tratta di un meccanismo di “cap and trade”, che fissa un limite (cap) alle emissioni di alcuni gas-serra, in particolare di CO2, che viene progressivamente reso più stringente. Le imprese incluse nel sistema ricevono una certa quantità di permessi di emissione, che possono vendere o acquistare (trade) a seconda delle loro esigenze. Per questi permessi, assegnati in numero limitato, si forma un prezzo sul mercato. Ma, a seguito della contrazione dei livelli produttivi dovuta alla recessione, si è venuto a creare un eccesso di permessi, pari nel 2013 a oltre 2,1 miliardi, il cui prezzo è diminuito fino a 6,70 euro, limitando in misura significativa l’efficacia di questo strumento per disincentivare l’uso di combustibili fossili.

Per quanto riguarda i settori che non rientrano nell’ETS – il settore domestico, l’agricoltura, i trasporti con l’eccezione del settore aereo, e il settore delle costruzioni – e che rappresentano nel loro insieme circa il 55% delle emissioni totali, il Consiglio europeo del 23-24 ottobre scorsi ha deciso la fissazione di obiettivi nazionali di riduzione, compatibili con una riduzione globale per questi settori pari al 30% nel 2030. Ma, con la caduta recente del prezzo del petrolio, diventa possibile l’introduzione di una carbon tax nei settori esclusi dal sistema di cap-and-trade e la fissazione, in parallelo, di un prezzo minimo per i permessi, in misura equivalente all’aliquota della carbon tax, a un livello tale da sostenere gli investimenti in energia low-carbon.

La carbon tax dovrebbe essere un’imposta sui combustibili fossili prelevata su carbone, gas e petrolio in base al contenuto di carbonio, in sostanza una proxy di un’imposta sul consumo di carbonio. L’introduzione di questa imposta domestica dovrebbe essere accompagnata dall’imposizione di un diritto compensativo alla frontiera (border tax adjustment - Bta) sulle importazioni di beni energy intensive provenienti da paesi che non impongono un prezzo per l’uso di combustibili fossili ad elevato contenuto di carbonio. Come rilevato recentemente da Lawrence Summers sul Financial Times, il Bta è uno strumento fondamentale per evitare che il rischio di perdita di competitività delle aziende nazionali possa rendere più forti le obiezioni all’introduzione dell’imposta e può inoltre incentivare i paesi che ancora non lo fanno all’utilizzo di strumenti – di prezzo o di quantità – per limitare le emissioni di gas a effetto serra.

Due considerazioni finali. La carbon tax fornirebbe un gettito significativo che potrebbe essere destinato, almeno parzialmente, al bilancio europeo, in modo tale da garantire le emissioni di eurobond necessarie per il finanziamento di un piano di sviluppo sostenibile, finalizzato a un rilancio “verde” dell’economia europea. In effetti, nell’ipotesi fondata sulla proposta della Commissione di un’aliquota della carbon tax pari a € 20 per tonnellata di CO2, posto che un barile di petrolio emette circa 0,3 tonnellate di CO2 ed equivale a circa 159 litri di benzina, il prelievo sarebbe pari a € 6 per barile e a €0,0377 al litro. Con un prezzo per un litro di benzina dell’ordine di €1,5, l’aumento dovuto alla tassa sarebbe pari al 2,5% e metterebbe a carico di famiglie e imprese un onere addizionale pari soltanto a 1/10 della riduzione del prezzo del petrolio.

Sulla base dei dati più recenti pubblicati dalla European Environmental Agency le emissioni totali di CO2 nel 2012 ammontavano a 4.522 milioni di tonnellate. Se venisse introdotta una carbon tax sui settori che non rientrano nell’ETS, avremmo un gettito dell’ordine di circa 50 miliardi di euro (le emissioni in questi settori sono pari a circa il 55% del totale). Pur tenendo conto delle approssimazioni implicite in queste stime, appare evidente che si tratta di un gettito significativo.

La seconda considerazione riguarda l’opportunità che l’Europa proceda unilateralmente all’introduzione di una carbon tax, in attesa che si decida l’introduzione di un’imposta a livello mondiale, patrocinata recentemente da Jeffrey Sachs, e che potrebbe essere destinata al finanziamento del Green Climate Fund, gestito da una Organizzazione Mondiale sull’Ambiente nell’ambito delle Nazioni Unite. Se la struttura dell’imposta prevede l’imposizione di diritti compensativi all’importazione e in presenza di una caduta significativa del prezzo del petrolio, la carbon tax può essere introdotta senza incidere negativamente sulla competitività dell’industria europea e consentendo al contempo a famiglie e imprese di godere in larga misura degli incrementi di reddito reale legati alla riduzione dei costi dell’energia.

* Professore di Scienza delle Finanze all'Università di Pavia, membro del Consiglio Direttivo del Centro Studi sul Federalismo

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