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Il filo diretto tra finanza e carbon pricing

Olimpia Fontana
Commento n. 141 - 14 febbraio 2019  

 

Da anni l’impegno dell’Ue contro i cambiamenti climatici è evidente, su più fronti e con vari strumenti: dal 2005 con l’Emission trading system (Ets) per porre un limite alle emissioni di CO2 nel settore industriale; attraverso strategie di lungo periodo per il clima e l’energia; con la predisposizione di determinati programmi all’interno del bilancio comunitario. Tra questi ultimi, va ricordato il piano per gli investimenti pubblici e privati europei, il “Piano Juncker”, attivo dal 2015, che finanzia progetti in vari settori, tra cui anche quelli energetico e ambientale.

Un’analisi della distribuzione per settore dei progetti finanziati dal Piano Juncker mostra però che la causa della sostenibilità ambientale non è adeguatamente sostenuta, laddove (dati di dicembre 2018) solo il 23% degli investimenti del Piano rientra sotto le etichette “energia” e “ambiente”. Si tratta di interventi di vario tipo – da impianti eolici ed edifici a quasi-zero emissioni, a infrastrutture idriche efficienti e produzione di sacchetti biodegradabili –, per un importo totale di 28 miliardi l’anno. Anche considerando che l’effettivo peso della sostenibilità ambientale sia maggiore, essendo essa l’architrave sotto cui rientrano progetti classificati in altri settori, la capacità della finanza privata di materializzarsi in favore dell’ambiente non è commisurata a quanto sarebbe necessario: 180 miliardi di investimenti l’anno per raggiungere gli obiettivi sulla mitigazione del riscaldamento climatico decisi con l’accordo di Parigi del 2015.

Per instaurare un legame diretto tra la finanza e la sostenibilità ambientale la Commissione europea ha lanciato un articolato “Piano d’azione sulla finanza sostenibile”, con misure capaci di orientare in modo chiaro e trasparente la mole di capitale privato verso utilizzi a reale impatto sul clima. Tra le misure individuate, la realizzazione di un sistema unico di classificazione, che renda chiaro ai mercati quale tipo di attività possa essere considerata davvero sostenibile, in accordo con gli obiettivi dalla politica ambientale. Ciò dovrebbe produrre anche uno standard per i green bond europei, strumenti che finanziano progetti a impatto positivo per l’ambiente, già sul mercato dal 2007, ma per i quali non esiste ancora un certificato che possa validarne la natura “green”.

L’iniziativa sulla finanza sostenibile mette in luce la necessità di misure esplicite a favore della transizione energetica attraverso azioni tra loro coerenti, che allineino gli interessi dell’economia e della finanza con quelli della sopravvivenza del pianeta. Un’ulteriore dimostrazione di questa volontà sarebbe l’adozione di disincentivi all’uso dei combustibili fossili generatori di emissioni di gas climalteranti. Lo strumento che da un punto di vista di efficienza economica meglio permette di incentivare il passaggio verso fonti rinnovabili è la carbon tax, perché riesce a tassare una risorsa energetica sulla base della quantità di CO2 prodotta al momento della combustione. L’uso di una misura diretta a sostenere la transizione energetica rafforzerebbe ulteriormente la capacità della politica di guidare la finanza verso la sostenibilità.

La carbon tax esiste in 23 paesi nel mondo, di questi dieci sono membri dell’Ue. Un report dell’Institute for Climate Economics illustra la situazione della carbon tax al 2018 in Europa: ad averla introdotta sono Svezia con 112 euro/tCO2, Finlandia 67 euro/tCO2, Francia 48 euro/tCO2, Danimarca 26 euro/tCO2, Irlanda 25 euro/tCO2, Slovenia 18 euro/tCO2, Portogallo 9 euro/tCO2; seguono Polonia, Estonia e Lettonia in misura inferiore a 4 euro/tCO2. Si tratta di aliquote molto differenziate e nella maggior parte non adeguate ai livelli minimi, tra i 35 e i 70 euro/tCO2, che gli esperti ritengono necessari per disincentivare l’uso dei combustibili fossili e favorire il passaggio alle rinnovabili.

Dopo vani tentativi, nel 1992 e nel 2011, di introdurre una carbon tax omogenea a livello europeo, l’Ue è riuscita a dotarsi dell’Ets, uno strumento di controllo delle emissioni attraverso l’assegnazione (gratuita o all’asta) di quote di emissione, cioè permessi che centrali elettriche e impianti industriali possono far valere per poter emettere CO2. Esso tuttavia presenta dei limiti, tra cui l’incapacità di sostenere attraverso il meccanismo di domanda e offerta il prezzo dei permessi, ovvero il carbon price. Nell’ultimo decennio, per via della crisi economica si è creato un eccesso di offerta di permessi che ha portato a un progressivo calo dei prezzi: da 30 euro/tCO2 nel 2008 a meno di 5 euro/tCO2 nel 2017, un livello troppo basso per stimolare il passaggio verso investimenti a basse emissioni.

Il prezzo delle quote di emissione ha quindi bisogno di essere sostenuto. Il processo di revisione in atto dell’Ets prevede misure per ridurne l’offerta e l’aggiornamento delle regole per l’assegnazione gratuita. Rispetto al primo punto, sebbene il prezzo delle quote abbia ricominciato a salire intorno ai 20 euro/tCO2, la sua volatilità richiederebbe che il sistema Ets sia supportato dall’introduzione di una soglia minima, in linea con le indicazioni degli esperti, al di sotto del quale il prezzo non possa scendere. In relazione alla modalità di assegnazione, poi, è previsto il passaggio definitivo alla vendita all’asta, ad esclusione però di quei settori più a rischio di vedere delocalizzata la propria produzione in caso di applicazione di un prezzo alle quote.

Con il progressivo smantellamento delle quote gratuite si renderebbero disponibili maggiori proventi che i paesi membri ricevono dalla vendita delle quote Ets. Una parte di questo gettito potrebbe passare dai paesi membri al bilancio comunitario, come suggerito dalla Commissione nella proposta sul Quadro finanziario pluriennale 2021-2027, in cui si stima di poter ricevere in questo modo, a seconda del prezzo di mercato delle quote, da uno a 15 miliardi di euro l’anno.

Oggi il dibattito sulla carbon tax si concentra sulla necessità che la transizione energetica garantisca, oltre all’obiettivo di zero emissioni, un carbon dividend, ovvero misure di equità sociale per sostenere i cittadini con redditi più bassi. All’interno del bilancio comunitario un carbon dividend potrebbe realizzarsi destinando i suddetti proventi della vendita delle quote Ets al finanziamento di un Just Transition Fund, che il Parlamento europeo ha di recente proposto per aiutare le regioni più dipendenti dal carbone a sostenere i lavoratori colpiti dalla ristrutturazione industriale con misure di reimpiego e riqualificazione. Creare un carbon dividend a livello europeo nel settore industriale potrebbe essere il punto di partenza per riaprire le trattative per un’omogenea carbon tax europea applicata al resto dell’economia, accompagnata da forme di carbon dividend estese a soggetti con redditi più bassi.

In seguito alla crisi del 2008 il settore privato ha accumulato un eccesso di risparmio in cerca di opportunità di investimento profittevoli e sicure. La transizione ecologica è un terreno fertile di opportunità e benefici: agli attori della finanza e della produzione industriale servirebbe una chiara indicazione da parte della politica, a livello europeo, che essa è una priorità e che lo sarà nel lungo termine. Ma per fare questo servono misure tra loro complementari e coerenti che spingano gli investimenti nella direzione della sostenibilità ambientale.

* Ricercatrice al Centro Studi sul Federalismo

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