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Contratto di governo e autonomie: questioni aperte

Stefano Piperno
Commento n. 129 - 5 luglio 2018   

 

Nel dibattito sul programma del nuovo governo basato sulla alleanza tra la Lega e il Movimento Cinque Stelle, più noto come “contratto per il governo del cambiamento”, si è prevalentemente discusso sulle compatibilità finanziarie tra i “provvedimenti bandiera” delle due forze politiche (la flat tax e il reddito di cittadinanza) e sulle questioni legate all’immigrazione. Scarsa invece l’attenzione su altre tematiche trasversali rilevanti come quella relativa al rapporto tra lo Stato e le autonomie regionali e locali. Basti pensare che un decennio fa, all’epoca delle elezioni per la XVI legislatura (2008), essa era al centro del dibattito politico, per creare quello che, semplificando, veniva chiamato "federalismo fiscale".

Una lettura del contratto consente di enucleare le parti che hanno una maggiore attinenza con le relazioni tra Stato e altri livelli di governo. Solo il paragrafo 20, intitolato "Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta", ne parla in maniera esplicita. Gli impegni presi riguardano:

  1. l’attuazione del regionalismo differenziato attribuendo maggiori funzioni alle Regioni che lo richiedano in base all’art. 116 della Costituzione, portando a rapida conclusione le trattative già aperte tra Governo e Regioni e attribuendo loro le "risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse". Si accetta la logica delle geometria variabile del regionalismo che tenga conto "sia della peculiarità e delle specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale";
  2. l’attuazione degli artt. 5 e 118 della Costituzione, con il trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni e da queste ai Comuni secondo il principio di sussidiarietà;
  3. garantire i trasferimenti necessari agli enti locali e sospendere i tagli di risorse avvenuti negli ultimi anni;
  4. attuare le disposizioni costituzionali su Roma Capitale (art. 114 della Costituzione) con legge dello Stato.

Altri riferimenti compaiono nel paragrafo 21 dedicato alla Sanità, in cui si ribadisce l’autonomia regionale nell’organizzazione dei servizi sanitari sulla base dei LEA individuati dal Governo nazionale, garantendone il finanziamento pubblico attraverso la fiscalità e aumentando le risorse attribuite. Nel paragrafo 22 sulla Scuola non si fa invece cenno a una maggiore attribuzione di poteri alle Regioni attraverso lo strumento del regionalismo differenziato. Infine, nel paragrafo 28 sul Turismo compare la proposta di abolizione dell’imposta comunale di soggiorno, nonostante sia considerata una imposta efficiente a livello locale da molti studiosi del federalismo fiscale. Nel contratto compaiono poi una serie di riferimenti indiretti alle Regioni per quello che concerne le politiche previste in numerosi campi (agricole, ambientali e di tutela idrogeologica, centri di assistenza e di permanenza temporanea per gli immigrati, centri per l’impiego, turismo) nell’ambito dell’attuale ripartizione delle competenze.

Quali valutazioni si possono dare rispetto a questi aspetti del contratto? Da un lato si notano degli intendimenti generici come quelli riferiti all’attuazione degli artt. 5 e 118 della Costituzione (ma bisognerebbe aggiungere anche l’art. 117), che manca dal 2001. Indicazioni più specifiche come l’attuazione del regionalismo differenziato e delle previsioni costituzionali sull’ordinamento di Roma capitale potrebbero essere sviluppate solo in tale quadro istituzionale rinnovato. Ugualmente, ci possiamo chiedere come possano essere quantificati “i trasferimenti finanziari necessari agli enti locali” senza rivederne l’ordinamento tributario. Infine, non vi è traccia di indicazioni in merito alla riorganizzazione territoriale del Paese, dai problemi del governo di area vasta e delle Province a quello della frammentazione comunale, per non parlare dei difficili rapporti tra Comuni e Regioni.

L’impressione è che si siano volute indicare alcune specifiche priorità politiche (regionalismo differenziato e legge su Roma capitale) in assenza di una prospettiva sistemica per il modello di decentramento auspicato. Gli studiosi del federalismo fiscale hanno sempre sottolineato come invece sia essenziale che competenze ed autonomia di spesa, fonti di entrata e autonomia nella loro gestione, vincoli di bilancio e per l’indebitamento, regole contabili, strumenti di governance multilivello, siano disegnati in maniera coerente. Un modello orientato al decentramento dovrebbe essere soprattutto caratterizzato da semplicità, stabilità e soprattutto livelli elevati di autonomia tributaria (non promette bene la possibile eliminazione dell’imposta di soggiorno…). Altrimenti, a fronte delle probabili emergenze finanziarie del futuro, si corre il rischio di replicare l’approccio seguito dai precedenti governi che si è basato (specie negli anni di crisi più acuta) su provvedimenti parziali e incoerenti che hanno seriamente compromesso la funzionalità del processo di decentralizzazione fiscale disegnato dalla Legge n. 42/2009.

Come sottolineato nella ultima Relazione semestrale della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale, del gennaio 2018, "una delle espressioni maggiormente ricorrenti in materia di federalismo fiscale è transizione (…) ovverosia la mutevolezza e conseguente provvisorietà dei rapporti finanziari e della distribuzione del potere di entrata e di quello di spesa" (cap. 1.2). In assenza di un quadro istituzionale e, soprattutto, finanziario organico anche la giusta prospettiva di un regionalismo differenziato rischia di restare una petizione di principio che maschera il desiderio – neanche più tanto celato, a giudicare di alcune recenti prese di posizione istituzionali – di trattenere più risorse tributarie prodotte in loco riducendo i cosiddetti "residui fiscali".

È probabile che un documento come il contratto non potesse essere la sede migliore per un programma di questo tipo – anche se forse qualche riferimento diretto ai problemi degli ultimi anni ci sarebbe potuto stare. L’auspicio è però che con la ripresa dell’attività parlamentare le due Commissioni bicamerali che si occupano di decentramento, quella per le questioni regionali e quella sull’attuazione del federalismo fiscale, possano fornire al Parlamento, alle rappresentanze delle autonomie e a tutta l’opinione pubblica una sorta di Libro bianco sullo stato del decentramento nel nostro Paese (nel 2019 cadrà il decennale della Legge n. 42/2009) che ne individui i nodi prioritari e un percorso coerente di evoluzione.

* Collaboratore del Centro Studi sul Federalismo

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