Quali priorità per il bilancio dell'Ue
Alfonso Iozzo e Ferdinando Nelli Feroci
Commento n. 127 - 17 aprile 2018
Tra poche settimane la Commissione europea presenterà le sue proposte, e ricomincerà, come ogni sette anni, il tormentato negoziato sul Quadro Finanziario Pluriennale, per il prossimo ciclo di programmazione finanziaria (2021-2027). Una trattativa complicata nel cui contesto si dovranno ridefinire le priorità di azione per la UE, decidere sulle risorse da destinare alle varie voci di spesa, individuare nuove forme di finanziamento per il bilancio comune.
Malgrado l’esiguità delle risorse a disposizione (una cifra attorno all’1% del PIL dell’Unione, che equivale a circa il 2% della spesa pubblica dell’Unione); e malgrado una tendenza consolidata a non scostarsi da quanto concordato in passato (la path dependency che ha tradizionalmente caratterizzato questo esercizio), la partita del bilancio della UE è stata e sarà il teatro di un confronto non solo fra contributori netti e beneficiari netti ma, sempre più, fra riformatori e conservatori.
La definizione della struttura e delle articolazioni del bilancio è complicata da alcuni fattori nuovi rispetto al passato. Con la Brexit verrà meno la partecipazione del Regno Unito al bilancio UE, un importante contributore netto, malgrado il famigerato rimborso (rebate). Tradotto in cifre questo comporterà un “buco” di circa 12/13 miliardi di euro per anno. Si dovrà decidere quanto questa riduzione di risorse verrà compensata da riduzioni di spesa o da aumento dei contributi nazionali, o eventualmente da nuove risorse.
Si va consolidando l’idea che si debba partire dalla individuazione delle nuove priorità dell’UE, e che per queste nuove voci di spesa si debbano trovare adeguati finanziamenti. Si tratta delle spese per i “nuovi beni pubblici europei”: ricerca, innovazione, competitività, lotta ai cambiamenti climatici, ma anche gestione dei flussi migratori, controllo delle frontiere, sicurezza, difesa. In un bilancio con risorse limitate, queste nuove spese dovranno essere compensate da riduzioni di spesa sulle politiche comuni più tradizionali, a partire da agricoltura e coesione (che oggi assorbono circa i due terzi del bilancio UE). Sappiamo però quanto queste politiche siano presidiate da forti interessi costituiti.
La Commissione ha già anticipato (senza quantificarle) riduzioni sulle risorse a disposizione per l’agricoltura (che nel presente ciclo è finanziata con circa 400 miliardi di euro. pari al 37% del bilancio) e per la coesione (oggi finanziata con circa 370 miliardi di euro, pari a circa il 35% del bilancio). Ma la vera sfida sarà quella di riformare la PAC per farne un efficace strumento di modernizzazione dell’agricoltura europea ed un incentivo allo sviluppo di un comparto agricolo coerente con i principi e gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Per la coesione la sfida sarà quella di utilizzare quei fondi, originariamente concepiti quale strumento di solidarietà verso regioni meno sviluppate, come investimenti per migliorare la competitività dei territori.
Nel dibattito sulle lezioni da trarre dalla recente crisi economica e finanziaria è emersa con insistenza l’idea che il bilancio dell’UE (o un autonomo bilancio dell’Eurozona) debba assolvere anche ad una funzione di stabilizzazione, per assorbire shock asimmetrici che possano colpire singoli Stati membri. Vi è certo un problema di adeguatezza di un bilancio con risorse limitate rispetto a quella funzione. Va tuttavia esplorata – pur mettendo in conto forti resistenze di Stati membri “conservatori”– la via indicata dal Presidente della Commissione Juncker, per “una forte linea di bilancio” destinata all’Eurozona all’interno del bilancio dell’UE.
Sul fronte delle fonti di finanziamento del bilancio va tenuto presente che la quota più significativa delle entrate dipende da contributi nazionali: ciò è vero sia per la risorsa IVA (che viene versata al bilancio comune dai singoli bilanci nazionali), che a maggior ragione per la risorsa calcolata come quota parte del PIL nazionale (una volta considerata residuale, oggi di gran lunga la maggiore fonte di finanziamento del bilancio comune).
Questo ha prodotto la prevedibile conseguenza che i Governi nazionali siano portati a negoziare il bilancio della UE soprattutto in funzione di un calcolo ragionieristico tra il dare e l’avere: la logica miope dei “saldi netti” e del cosiddetto “giusto ritorno”, che oscura il “valore aggiunto europeo” che è alla base di un bilancio dell’UE. Di conseguenza, i maggiori contributori (che sono anche contributori netti) sono interessati soprattutto a limitare la dimensione del contributo netto; i beneficiari netti sono interessati ad aumentare i tetti di spesa, con l’obiettivo di massimizzare la spesa europea nei rispettivi Paesi.
Per spezzare questo circolo vizioso da tempo si ipotizza l’adozione di una nuova autentica “risorsa propria” europea, sotto forma di una tassa europea che vada direttamente a finanziare il bilancio dell’UE. Varie proposte sono state avanzate a questo proposito: da una imposta sulle emissioni di biossido di carbonio (carbon tax), ad una tassa sui colossi del web, ad un tassa sulle transazioni finanziarie. Ci auguriamo che la Commissione proponga una nuova autentica risorsa propria ed apra così un confronto su una misura necessaria per rendere il meccanismo di finanziamento del bilancio comune meno dipendente da interessi e contributi nazionali.
Infine con la Brexit, e quindi con il venir meno del rimborso al Regno Unito, dovrebbe essere finalmente possibile eliminare ogni forma di rimborso, cancellando un sistema che aveva contribuito a rendere poco trasparente e poco comprensibile, anzitutto per i cittadini europei, il meccanismo di finanziamento del bilancio.
Si dovrà poi trovare il modo di semplificare e modernizzare il bilancio aumentandone la flessibilità. Un obiettivo da realizzare prevedendo la possibilità di spostare risorse da una voce di spesa ad un’altra per far fronte ad esigenze non programmate, di creare una riserva dove possano confluire fondi impegnati ma non spesi, di combinare i fondi del bilancio con altri strumenti finanziari. E infine si dovrà affrontare la questione, particolarmente rilevante per l’Italia, del collegamento da stabilire tra uso dei fondi del bilancio comune e rispetto dei principi e valori fondanti dell’UE.
Si preannuncia una partita complessa, che dovrà dirci se e quanto si è disponibili a investire sull’Europa. Molto dipenderà dalle proposte che farà il mese prossimo la Commissione. Su quelle proposte partirà il negoziato in sede di Consiglio e al Parlamento Europeo. In uno scenario ideale l’accordo dovrebbe essere raggiunto prima della fine della legislatura e prima dell’insediamento della nuova Commissione. Ma sulla base dei precedenti sembra alquanto improbabile riuscire a rispettare questa scadenza. Nel frattempo, salutiamo con favore le posizioni assunte dal Parlamento Europeo rispetto sia ad un aumento delle risorse del bilancio UE sia ad un futuro adeguamento del ciclo del bilancio, oggi settennale, a quello della legislatura europea, con il passaggio a un bilancio su 5+5 anni, con una sua revisione tra una legislatura e l’altra.
Su tutto questo l’Istituto Affari Internazionali e il Centro Studi sul Federalismo, con il sostegno del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e della Compagnia di San Paolo, hanno condotto un articolato progetto di ricerca, i cui risultati vengono presentati oggi a Roma. Ci auguriamo che possa contribuire alla definizione di una autorevole e lungimirante posizione nazionale in vista del negoziato che inizierà fra qualche settimana.
* Rispettivamente Presidente del Centro Studi sul Federalismo e dell’Istituto Affari Internazionali (una sintesi di questo articolo è stata pubblicata oggi su Il Sole 24 Ore)