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Riforma delle Nazioni Unite: a che punto siamo?

Andrea Cofelice
Commento n. 126 - 21 febbraio 2018   

 

Con la pubblicazione di Un’Agenda per la Pace (1992), Un’Agenda per lo Sviluppo (1994) e Un’Agenda per la Democratizzazione (1996), l’allora Segretario Generale Boutros Boutros-Ghali lanciò un ambizioso programma di riforma delle Nazioni Unite al fine di rafforzare, democratizzare e adattare la struttura e le modalità operative dell’organizzazione al mutato contesto internazionale, segnato dalla fine della guerra fredda. Cosa resta oggi di quel “cantiere di riforme”? Quali sono le iniziative intraprese e quali i nodi ancora irrisolti?

Sul piano istituzionale, le uniche iniziative fino ad oggi realizzate risalgono al segretariato di Kofi Annan (1997-2006), il quale scelse di incentrare la propria agenda soprattutto sulla riforma del pilastro pace e diritti umani, favorendo la creazione della Commissione Peace-building e del Consiglio Diritti Umani (proposte entrambe contenute nel rapporto In Larger Freedom del 2005).

La Commissione Peace-building nasce nel 2006 da concrete esigenze “sul terreno”. Le tradizionali missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite, infatti, generalmente giungevano a conclusione in coincidenza con la sottoscrizione di accordi di pace tra le parti. L’evidenza empirica, tuttavia, ha ampiamente dimostrato che circa la metà dei Paesi coinvolti in un conflitto, soprattutto se di natura civile, tendono a ricadere nella spirale di violenza nell’arco di cinque anni dalla sottoscrizione di tali accordi. Al fine di ridurre tale rischio, la Commissione, organismo intergovernativo composto da 31 membri, opera in contesti di post-conflitto con il mandato di mobilitare le risorse necessarie e promuovere strategie integrate di medio-lungo periodo per la ricostruzione di infrastrutture, istituzioni e reti sociali. Lavora attualmente in sei Paesi africani: Burundi, Sierra Leone, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia e Repubblica Centrafricana.

Sempre nel 2006 è stato istituito il Consiglio diritti umani, in sostituzione della precedente Commissione per i diritti umani. Nonostante la sua imprescindibile funzione di centro di irradiazione del diritto internazionale dei diritti umani, negli ultimi anni del suo operato la Commissione per i diritti umani era divenuta oggetto di ripetute critiche per l’eccessivo tasso di politicizzazione e la scarsa efficacia nel rispondere alle violazioni dei diritti umani nel mondo. Senza modificarne il mandato, l’attuale Consiglio diritti umani, organo sussidiario dell’Assemblea Generale composto da 47 Stati membri, ha istituito nuovi e, almeno nelle intenzioni, più equi meccanismi di protezione: l’operato del Consiglio in tal senso verrà valutato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2021.

Terminato il mandato di Ban Ki-moon (2007-2016), contraddistinto da un deludente immobilismo su questi temi, il cantiere di riforme è stato riaperto dall’attuale Segretario Generale Antonio Guterres. A pochi mesi dalla sua elezione, infatti, Guterres ha presentato, in una serie di rapporti dettagliati, le proprie proposte per rafforzare il sistema di sviluppo delle Nazioni Unite, riformarne il pilastro pace e sicurezza, e semplificare il management dell’organizzazione.

Per quel che riguarda il tema dello sviluppo, la proposta di riforma è articolata in sette punti strategici, con cui si intendono affrontare la frammentazione e la burocratizzazione del sistema delle Nazioni Unite, che causano gravi carenze operative, duplicazione del lavoro e dispersione delle risorse. La riforma, inoltre, mira a creare un sistema più responsabile ed efficace, che offra migliori risultati sul campo, adottando un approccio basato sui bisogni, sulla prevenzione, e finalizzato a rafforzare le capacità di risposta, di pianificazione e gestione dei rischi da parte dei Paesi in via di sviluppo.

In tema pace e sicurezza, Guterres propone la creazione, all’interno del Segretariato delle Nazioni Unite, di un Dipartimento per gli affari politici e di peace-building e di un Dipartimento per le operazioni di pace, al fine di migliorare l’efficacia e la coerenza delle operazioni di mantenimento della pace e delle missioni politiche speciali. Si punta ad adottare un approccio olistico che affronti le cause fondamentali delle situazioni di conflitto e post-conflitto, ponendo maggiore enfasi sugli aspetti socio-economici e sulla necessità di integrare in maniera più incisiva il pilastro della sicurezza con quello dei diritti umani e dello sviluppo.

Nel corso del 2018, le proposte di riforma del Segretario Generale Guterres saranno oggetto di negoziato da parte dell’Assemblea Generale.

Per quanto necessari e apprezzabili siano gli sforzi compiuti dai vari Segretari Generali, l’elefante nella stanza è rappresentato dalla (mancata) riforma del Consiglio di Sicurezza. Sebbene il tema sia oggetto di dibattito da parte di vari gruppi di lavoro intergovernativi a partire dal 1993, ad oggi le posizioni degli Stati sono talmente polarizzate da aver impedito perfino la predisposizione di una bozza di testo scritto da sottoporre a negoziato. Quali sono, in questo caso, i nodi principali?

Secondo un’agenda di lavoro fissata nel lontano 2008, l’attuale negoziato intergovernativo sulla riforma del Consiglio di Sicurezza dovrebbe incentrarsi su cinque tematiche: 1) categorie di membri del Consiglio (permanente, non permanente o altre opzioni); 2) questione del veto; 3) rappresentanza regionale; 4) dimensioni di un Consiglio allargato e metodi di lavoro; 5) rapporti tra il Consiglio e l’Assemblea Generale. In realtà, si è prodotta una situazione di stallo negoziale sui punti 3 e 4, dovuta ad un aspro confronto tra tre principali gruppi di Stati: il cosiddetto “Gruppo dei quattro - G4”, composto da Germania, Giappone, India e Brasile, che sponsorizzano la propria adesione al Consiglio in qualità di membri permanenti; il Gruppo Africano, che invoca due seggi permanenti aggiuntivi da riservare a Stati africani; ed il gruppo “Uniti per il consenso”, più eterogeneo (ma composto, tra gli altri, dai principali “rivali” regionali del G4, tra cui Pakistan, Spagna, Italia, Argentina, Canada, Messico e Colombia), l’unico ad opporsi all’espansione dei seggi permanenti e del potere di veto, limitandosi a richiedere, invece, nuovi seggi non-permanenti o semi-permanenti.

Data la situazione attuale, non stupisce che le proposte di riforma più avanzate provenienti per lo più dalla società civile, quali la trasformazione del Consiglio di Sicurezza nella Camera delle organizzazioni regionali, la creazione di un’Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite, o la riforma democratica delle istituzioni economiche e finanziarie globali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio), non abbiano trovato spazio nei negoziati intergovernativi.

L’attivismo sin qui dimostrato dall’attuale Segretario Generale offre, tuttavia, qualche margine di speranza affinché l’obiettivo di riformare l’ONU sia ripreso e rilanciato in termini concreti. Resta, dopo tutto, una precisa consapevolezza: sebbene la sua struttura amministrativa sia elefantiaca e anacronistica, e le attuali leadership governative non brillino certo per capacità progettuali, per dirla con le parole di Antonio Papisca, “per quanto riguarda i principi, gli obiettivi, e l’architettura (benché incompiuta) di una infrastruttura mondiale per la sicurezza collettiva sotto autorità ‘sopranazionale’, la Carta delle Nazioni Unite conserva intatta la sua validità dal punto di vista giuridico, politico, morale, storico”.

* Ricercatore del Centro Studi sul Federalismo

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