L’Unione europea dalle secche intergovernative a un percorso compiutamente federale
Matteo Scotto
Commento n. 118 - 10 ottobre 2017
L’Unione europea, nonostante la questione catalana – che è anche un problema dell’Unione – e le difficili negoziazioni per l’uscita del Regno Unito, si trova in una congiuntura favorevole, perfino migliore di quanto molti si aspettassero. Le elezioni politiche tenutesi in vari Stati membri tra la fine del 2016 e il 2017 non hanno dato ragione a chi considerava l’Unione il problema e non la soluzione delle diverse crisi che l’UE si è trovata negli ultimi anni ad affrontare. Anche se il periodo d’oro del consenso indubitabile per il progetto europeo è ormai finito, portando l’UE al centro del discorso politico, la maggioranza dei cittadini europei è ancora convinta che l’integrazione e non la disgregazione sia la strada giusta da seguire.
Sul fronte economico, arrivano nuovamente dall’ultimo bollettino della BCE dati positivi sulla crescita dell’Eurozona, dove nel 2017 il Pil crescerà del 2,2%. Un momento positivo e propositivo confermato sia dal discorso sullo Stato dell’Unione del Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, con cinque priorità programmatiche costruttive che fan ben dimenticare il pessimismo del Libro Bianco sul futuro dell’Europa, sia dal Presidente francese Emmanuel Macron, che con l’intervento alla Sorbona, sulla scia di François Mitterrand, ha difeso e lanciato il suo progetto per un’Europa unita.
Eppure, se da un lato molto è stato detto su che cosa l’UE dovrebbe fare di più e meglio, dall’immigrazione alla difesa passando per la sicurezza, poco o nulla è stato dichiarato sul come si dovrebbe arrivare a tali risultati, vale a dire in che modo andrebbero riformati i metodi decisionali per garantire all’Unione maggiore efficienza, legittimità e risolutezza. Nessuno ha parlato in questo senso di cambiamenti di rotta e pare esserci largo consenso, specialmente tra Germania e Francia, sulla conservazione dell’architettura istituzionale attuale, con il Consiglio europeo ormai saldamente a capo di un’Unione intergovernativa, che si distanzia da qualunque modello di aggregazione federale di Stati.
Come spesso sottolineato da Sergio Fabbrini, per comprendere a fondo i motivi che hanno sbilanciato così marcatamente la governance dell’UE e concentrato sempre più potere nelle istituzione intergovernative, a partire dal Consiglio europeo e dal Consiglio, è doveroso aprire una parentesi storica, che individua nel Trattato di Maastricht la culla dell’intergovernalismo e ha portato a quello che Uwe Puetter chiama "il paradosso dell’integrazione". Fu proprio il Trattato di Maastricht che sancì due processi decisionali distinti: uno comunitario dedicato alle aree di policy relative al mercato unico, con il coinvolgimento di Commissione, Parlamento e Corte, e l’altro intergovernativo, dedicato alle nuove aree di policy legate ai poteri statali strategici, quindi giustizia, affari interni, politica estera e sicurezza. Qui le istituzioni sovranazionali sono state relegate ai margini dei processi decisionali, se non del tutto escluse. Ciò significa che era già chiara l’intenzione di non perseguire una linea federale dell’integrazione – dunque con una condivisione ponderata delle competenze su vari livelli compreso quello sovranazionale –, bensì di custodire la volontà dei singoli Stati attraverso prassi deliberative basate sul consenso unanime.
Entro la definizione di queste procedure, iniziò a prendere silente piede il Consiglio europeo, un organo che per più di vent'anni non è stato altro che una conferenza informale dei capi di Stato, e che tuttavia, a partire dall’Atto Unico, ha trovato man mano la sua legittimazione attraverso i vari Trattati, fino al massimo riconoscimento quale nuova "istituzione" nel Trattato di Lisbona del 2007. Gli anni della crisi economica, durante i quali sono state di fatto introdotte nuove forme e nuovi strumenti di governance economica dell’Unione, hanno consolidato la posizione del Consiglio europeo, passato da riunirsi da tre a undici volte l’anno (senza contare l’Euro-summit), praticamente con la stessa frequenza della riunione plenaria del Parlamento europeo.
Ben lontano ormai dal definire esclusivamente gli orientamenti politici dell’Unione, come previsto dai Trattati, il Consiglio europeo condiziona i poteri legislativi ed esecutivi dell’Unione, con una rimarcata presenza nei rapporti inter-istituzionali e con un’influenza diretta sul lavoro della Commissione. Il Presidente del Consiglio europeo è così diventato a tutti gli effetti il massimo rappresentante dell’UE, con una carica stabile e con più poteri concessi dal Trattato di Lisbona, a cui non sono tuttavia corrisposti strumenti di contrappeso e controllo, per non parlare di una legittimazione democratica da parte dei cittadini europei. Tutta l’era post-Maastricht della integrazione europea andrebbe riletta in questa chiave, in particolare dal Trattato di Lisbona in poi, con chiari segnali di regressione istituzionale per tutto ciò che riguarda aree cruciali di policy.
Basta leggere la storia dei primi dieci anni degli Stati Uniti d’America, prima della Convenzione di Filadelfia del 1787, non già per ritrovare nel malfunzionamento degli Articoli della Confederazione le stesse cause della poca efficacia dell’UE di oggi, ma per capire che tale percorso integrativo, senza un riassetto federale risoluto, non porterà da nessuna parte e darà di conseguenza poche risposte concrete alle esigenze dei cittadini. Al di là degli alti e nobili fini delineati dai maggiori leader europei, senza dubbio apprezzabili, è necessaria una spinta – e qui l’Italia dovrebbe farsi co-protagonista – che porti l’UE fuori dalla logica intergovernativa e dia spazio a un percorso compiutamente federale verso un’Unione di Stati e di cittadini in grado di rispondere con efficacia alle sfide del nostro tempo.
Nel concreto, una volta che la forma dell’UE a due velocità sarà più chiara, con l’Eurozona, la difesa e la sicurezza rafforzate, occorrerà non perdere di vista i processi decisionali e le istituzioni con i quali si intenderà gestire tali policy. Sarà allora essenziale favorire il metodo comunitario, inclusivo degli organi rappresentativi degli interessi europei con decisioni prese a maggioranza. Inoltre, come ci ricorda Alexander Hamilton e a differenza di quello che avviene oggi, soprattutto per la governance economica, "non è prudente demandare i poteri che dovrebbero spettare all'Unione a organi che non possono essere continuamente e precisamente controllati". Sarà probabile che i paesi più rilevanti, come la Germania, continueranno a privilegiare una Unione intergovernativa – più per sfiducia negli altri paesi che nei principi federali –, in particolare in materia di finanza pubblica, dimostrandosi riluttanti a rinunciare a un potere di veto. Allora sì che sarà importante sfruttare la contingenza per aprire una discussione più ampia, in cui sarà necessaria credibilità e decisione da parte di tutti i paesi d’avanguardia, per aprire una nuova stagione di riforme costituzionali che dia luce a un’UE forse più piccola, ma certamente più unita di quella di oggi. La storia farà poi il suo corso, dimostrando che da essa si può e si deve imparare: anzitutto per evitare, parafrasando sempre Hamilton, di creare pasticci senza alcuna possibilità di durare.
* Matteo Scotto è ricercatore in Scienze politiche a Villa Vigoni - Centro Italo-Tedesco per l’Eccellenza Europea