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Il Regno Unito, l'Unione europea e la Brexit: contro la trappola tecnico-procedurale

Matteo Scotto
Commento n. 108 - 29 maggio 2017   

 

Sembrano passati secoli da quando la sinfonia numero 5 di Beethoven apriva le trasmissioni italiane di Radio Londra o quando nell’ottobre del 1971, dopo l’approvazione di Westminster, il primo ministro conservatore inglese, Sir Edward Heath, festeggiò l’ingresso del Regno Unito nella Comunità europea suonando Bach a Downing Street. Seguì una gran cerimonia a Palazzo d’Egmont nel gennaio del 1972 per la firma del trattato di adesione, a cui parteciparono Jean Monnet e Joseph Bech, testimoni onorari dell’ennesimo progresso di quell’integrazione europea da loro avviata. Pare surreale infine leggere le parole di Margaret Thatcher, da molti confusamente eretta a eroina senza tempo della Brexit, che nel 1988, in un celebre discorso tenuto al Collegio d’Europa di Bruges, sosteneva che "la Gran Bretagna non sogna di qualche accogliente, isolata esistenza ai margini della Comunità europea; il nostro destino è l’Europa, come parte della Comunità". Opinione condivisa dagli stessi cittadini di Sua Maestà nel referendum del 5 maggio 1975 indetto dai laburisti di Wilson sulla permanenza del Regno Unito nella CE, dove il “remain” vinse con 67% dei voti. Che cosa resta di tutto ciò? Che fine ha fatto l’impegno condiviso per il destino del continente europeo? Che cosa rimane della consapevolezza di quanto le relazioni tra Regno Unito e Europa continentale rappresentino uno strumento essenziale della politica dell’equilibrio per l’ordine mondiale?

Con la decisione dei cittadini britannici di abbandonare l’Unione europea nel referendum del 23 giugno 2016, gli eventi hanno mutato drasticamente il loro corso. Da allora, pare non esserci più spazio per la grande storia d’Europa, quella che ha visto da sempre il Regno Unito contrastare le egemonie, spesso autoritarie, che di volta in volta emergevano sul continente. Oggi, tutto può risolversi in sei lettere, come se dalla Storia si potesse uscire con un maniglione antipanico. Il termine Brexit, riproducibile in altri contesti – Grexit, Frexit, Italexit – è di per sé sintomatico della limitatezza di una sclerosi tecnico-procedurale omologante che ha fatto seguito al referendum del giugno scorso.

Ad oggi, per entrambe le parti in causa, pare che la Brexit sia esclusivamente una questione di quando, come e perché applicare l’articolo 50 del trattato sull’Unione europea, che stabilisce il meccanismo di recesso volontario di un paese dell’Ue. Tuttavia, va ricordato che un recesso implica che a monte ci sia una forma di appartenenza – un’annessione volontaria nel caso dell’Ue – a cui si rinuncia. Non andrebbe inoltre dimenticato, come ribadito da Brendan Simms, che ciò che viene rimesso pericolosamente in discussione nella vicenda della Brexit è lo stesso ordine europeo.

Un’indagine sulla Brexit dovrebbe comprendere una visione d’insieme, tra storia e geopolitica, del processo d’integrazione europea, di cui il Regno Unito è stato, per dirla con Silvio Fagiolo, l’“accrescimento più controverso e ricco di conseguenze”. Una qualunque “exit” è sì questione di numeri e procedure, che regolano l’economia e il quieto vivere, ma è in larga misura un trauma culturale dei cittadini, i quali, mostrando il fianco a una politica trasformista, rompono un legame con una comunità con cui hanno condiviso, fino al momento di rottura, diritti e doveri. Nel caso del Regno Unito, Nicholas Boyle lo definisce “trauma da perdita di eccezionalismo”, che è l’apice di una crisi d’identità iniziata, parafrasando Boyle, da quando gli inglesi hanno smesso di essere “inglesi” per divenire “britannici”, in linea con un’attitudine coloniale nei confronti dei vicini di casa e dandosi una definizione, “britannici” appunto, di cui, non a caso, solo gli inglesi vanno orgogliosi. Perché gli inglesi, continua Boyle, non riescono a pensare a sé stessi come nazione, a differenza di Scozia, Irlanda e Galles, né ne possiedono i tratti distintivi. La loro ragion essere è da sempre legata all’impero, lo stesso che nella prima metà dell’800, negli anni dopo le guerre napoleoniche, comprendeva un quinto della popolazione mondiale. Oggi ne rappresenta circa l’1%, il che spiega la profonda crisi culturale di un paese spaesato.

Dean Acheson, Segretario di Stato degli Stati Uniti nel dopoguerra, commentava con il suo piglio cinico la riluttanza del Regno Unito di entrare nella famiglia europea, affermando che la Gran Bretagna “ha perso un impero ed è in cerca di una causa”. Eppure, a differenza della percezione inglese, l’Unione europea ha rappresentato per il Regno Unito, specialmente per Scozia e Irlanda del Nord, una nuova dimensione in cui esistere, una realtà entro la quale trovare il proprio posto nel mondo. Per nulla in contrasto, come sostengono in molti, con lo Stato unitario del Regno, ma anzi complementare ad esso, fattore che ha garantito tra le altre cose un equilibrio interno tra le sue quattro nazioni costitutive. Ne è la prova il ritorno preoccupante della questione nord-irlandese o la volontà del primo ministro scozzese Nicola Sturgeon di indire un secondo referendum sull’indipendenza scozzese al netto della Brexit. Dal canto suo l’Unione europea, evolvendo verso un complicato sistema politico confuso e multilivello, non è stata in grado di definire in modo chiaro il contesto istituzionale entro il quale il Regno Unito avrebbe potuto trovare un suo spazio, finendo per alimentare la diffidenza del popolo britannico verso la giungla burocratica di Bruxelles.

Nel negoziato, iniziato il 29 marzo 2017, con la notifica ufficiale al Consiglio europeo da parte del governo britannico di voler attivare la procedura prevista dell’Articolo 50, tali riflessioni non vengono affrontate. Molti parlano di un dialogo che sfiora il surreale, con le due parti incapaci di fare il benché minimo sforzo di comprensione verso il proprio interlocutore. Da una parte il governo di Sua Maestà, forte – se le elezioni dell’8 giugno non riserveranno sorprese – della leadership di Theresa May, pretende un accordo “cherry-picking”, vale dire staccarsi dall’Unione preservando tutti i privilegi legati al mercato unico. Dall’altra parte l’Unione, guidata dalla convinzione che chi sceglie, paga in solitudine il prezzo della propria scelta – “out is out”, come affermato dal Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble –, risulta unita sulla posizione di una “hard Brexit”. Un’uniformità di intenti tutta da riconfermare sulle future modalità di associazione del Regno Unito all’Unione, sulle quali i paesi europei hanno interessi divergenti.

Nessuno può dire con certezza come andrà a finire: se il negoziato si concluderà con un “no deal” tra due anni e il rapporto commerciale tra Ue e Regno Unito sarà di conseguenza regolato dagli accordi dell’Organizzazione mondiale del commercio, o se si troverà un compromesso tra “hard” e “soft” Brexit, scenario che allo stato attuale risulta assai poco realistico. Certo è che la storia dell’integrazione europea meriterebbe qualcosa di più di un grafico o di un comma, e le parole di Sir Heath del 1972, quando affermava aprendo le cerimonie a Bruxelles che “con la conclusione del negoziato abbiamo fatto un altro grande passo in avanti per la rimozione delle divisioni dell’Europa occidentale”, sono là a ricordarcelo.

*Matteo Scotto è Ricercatore in Scienze politiche presso Villa Vigoni - Centro Italo-Tedesco per l’Eccellenza Europea

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