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Immigrazione: l'accordo Italia-Libia e la Dichiarazione del Consiglio europeo di Malta

Filippo Scuto
Commento n. 101 - 13 febbraio 2017   

L’accordo tra Italia e Libia del 2 febbraio ed il sostegno dato a questo memorandum d’intesa dal Consiglio europeo con la Dichiarazione di Malta del 3 febbraio hanno rimesso al centro della scena uno dei nodi irrisolti della politica europea dell’immigrazione. L’accordo è finalizzato a ridurre e contenere il fenomeno dell’immigrazione irregolare proveniente dalla rotta del Mediterraneo centrale. Come noto, l’Italia è il Paese dell’Unione che riceve le maggiori pressioni migratorie da questo canale di ingresso che, allo stato attuale, arriva in gran parte dalle coste libiche. Il memorandum d’intesa e la Dichiarazione di Malta affrontano una questione che è estremamente complessa in un quadro, va detto subito, fatto di luci e di (numerose) ombre.

Innanzitutto va valutato positivamente e considerato un passo in avanti l’intervento esplicito dell’Unione europea sulla questione dei flussi migratori dalla Libia che, da questo momento, entra ufficialmente nell’agenda europea relativa alle politiche dell’immigrazione. Il che può apparire scontato ma non lo è, dal momento che per anni l’Italia ha chiesto, senza successo, un maggiore coinvolgimento dell’Unione sul punto.

Partendo dal presupposto di migliorare la cooperazione tra i due Paesi nel contrasto all’immigrazione irregolare, il memorandum Italia-Libia ha l’obiettivo di controllare con maggiore efficacia, e con il sostegno logistico e finanziario dell’Italia, le coste libiche per ridurre le partenze di migranti. Siamo comunque lontani dalla politica dei respingimenti in alto mare operata dal Governo italiano nel periodo 2009-2011 sulla quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha opportunamente posto la parola fine con una celebre sentenza di condanna dell’Italia nel 2012. L’accordo si propone, inoltre, di migliorare il sistema di controllo dei confini meridionali della Libia dai quali giungono in massa i migranti dall’Africa sub-sahariana. A tale riguardo, più di una perplessità può essere sollevata sull’effettiva efficacia di questi interventi: di per sé il pattugliamento di quelle frontiere desertiche è molto difficile da realizzare e presuppone un controllo capillare del territorio da parte di un governo sovrano che, attualmente – come si dirà alla fine – è inesistente in Libia.

In questo contesto, il Consiglio europeo di Malta ha accolto favorevolmente il memorandum e si è impegnato, come detto, ad un maggiore impegno nella collaborazione con la Libia per contrastare l’immigrazione clandestina ed affrontare, più in generale, le cause profonde e strutturali dell’immigrazione avviando un solido partenariato con il Paese. Il tema del partenariato con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, finalizzato ad incrementare le misure di sostegno allo sviluppo socio-economico di quei paesi, è stato correttamente ritenuto centrale sin dalla prima agenda europea dell’immigrazione, nel Consiglio europeo di Tampere del 1999. Sul punto, l’Unione non ha sino ad oggi raggiunto i risultati sperati anche perché il partenariato presuppone l’esistenza di una politica estera comune che è uno dei talloni d’Achille dell’Unione.

Il memorandum e l’intervento dell’Unione appaiono, nella sostanza, un tentativo di replicare l’accordo stipulato dall’Unione europea con la Turchia nel 2016. Accordo non privo di criticità sotto diversi profili che ha comunque ridotto sensibilmente gli arrivi di migranti nelle isole greche con l’effetto, però, di incrementare gli sbarchi dei migranti in Italia. Al di là delle reali prospettive di successo dell’accordo con la Libia, è questo uno dei nodi di fondo di tali accordi. Il rischio è che abbiano l’effetto di misure-tampone che chiudono un canale di accesso all’Europa ma ne aprono altri, a fronte di una questione epocale che andrebbe affrontata con interventi strutturali a livello europeo e globale. Di tale pericolo sembra peraltro consapevole il Consiglio europeo. La dichiarazione di Malta parla esplicitamente della necessità di monitorare “rotte alternative” e, pertanto, di sviluppare la cooperazione anche con gli altri Paesi vicini (Egitto, Tunisia, Algeria). In un contesto di interventi strutturali e di ampio respiro – attualmente carenti – intese bilaterali di questo tipo possono consentire un migliore governo del fenomeno migratorio. Tali accordi, però, devono essere efficaci e “sostenibili” dal punto di vista del rispetto dei diritti umani.

Quest’ultimo aspetto è uno dei punti critici dell’accordo. Il tema del rispetto dei diritti umani è del tutto marginale nel memorandum d’intesa e viene soltanto accennato nella Dichiarazione di Malta con un generico riferimento ai diritti umani. Non a caso, l’UNHCR ed ONG quali Amnesty International e Human Rights Watch hanno immediatamente sollevato diverse critiche sul punto. La Caritas italiana ha parlato di un accordo fatto “contro i più deboli”. In particolare, il memorandum non fa alcun riferimento alla necessità di rispettare il diritto di asilo. Ma i migranti che transitano dalla Libia non sono soltanto “migranti economici”. Tra loro vi sono anche persone, non poche, che sono titolate a ricevere forme di protezione internazionale (circa il 45% secondo i dati dell’UNHCR relativi ai primi tre trimestri del 2016). Del tutto trascurata, inoltre, l’ipotesi di avviare “corridoi umanitari” mediante i quali selezionare alcuni richiedenti asilo e consentirne l’ingresso in Europa attraverso canali legali e sicuri. Altro tema delicato è quello delle condizioni dei migranti irregolari trattenuti in Libia in attesa di essere rimpatriati. L’accordo presuppone, evidentemente, la volontà di bloccare gli ingressi in Europa ed “esternalizzare” la questione della gestione dei migranti irregolari. Questo approccio non è di per sé illegittimo, anche se potrebbe essere criticato, ma appare estremamente problematico nel contesto libico. è noto che i centri di detenzione dei migranti in Libia pongono gravi questioni per la sistematica violazione dei diritti e per la diffusa pratica di violenze e abusi. Oltretutto, va ricordato che la Libia non ha nemmeno ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati.

Va, da ultimo, affrontato il problema di fondo di questo accordo. L’intesa è stata stipulata con il Governo di Tripoli, guidato da al-Serraj, che è riconosciuto dall’ONU ma controlla soltanto una parte del territorio libico, in un contesto in cui è presente a Tripoli un altro pseudo-Governo e, in Cirenaica, il Parlamento di Tobruk, che ha quale punto di riferimento il Generale Haftar, forte del sostegno di Russia ed Egitto. Senza dimenticare che il Paese è attualmente conteso tra decine di milizie armate. È evidente che, in assenza di un Governo sovrano in grado di esercitare il suo controllo su tutto il territorio libico, appare proibitivo dare attuazione all’accordo. Nei giorni scorsi, peraltro, come era prevedibile, il parlamento di Tobruk e varie “autorità” locali hanno contestato questo accordo, ritenendolo dannoso per la Libia e comunque privo di validità.

La questione è aperta. È certamente positivo che il dossier Libia sia stato inserito nell’agenda europea nell’ottica di un contenimento dei flussi migratori verso l’Italia. L’accordo con la Libia, però, contiene alcune criticità evidenti sul piano dei diritti ed appare prematuro se si considerano le condizioni in cui si trova quel Paese. La questione migratoria incalza e servono risposte immediate ma, al momento, manca la precondizione essenziale per realizzare accordi di questo tipo, vale a dire la stabilizzazione della Libia e la presenza di un Governo sufficientemente solido. In questa direzione andrebbero indirizzati nell’immediato gli sforzi dell’Europa e della Comunità internazionale, anche nell’ottica di una migliore gestione dei flussi migratori. 

Filippo Scuto è Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano (segnaliamo anche il suo Research Paper Le difficoltà dell’Europa di fronte alla sfida dell’immigrazione: superare il “sistema Dublino”)

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