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Piano Juncker e Piano Trump: infrastrutture per il mercato o per i cittadini?

Olimpia Fontana
Commento n. 96 - 21 dicembre 2016  

Dopo anni di crisi economica e stagnazione sembra non esserci più dubbio che per sostenere la crescita economica bisogna puntare sugli investimenti. Se in Europa il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha lanciato il Piano di Investimenti per l’Europa, il “piano Juncker”, oltreoceano il neo eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato un piano di investimenti infrastrutturali “per far di nuovo grande l’America”. Il punto non è più, come ha osservato Larry Summers, se si debbano realizzare maggiori investimenti, quanto piuttosto in quale quadro normativo ciò vada fatto. Ciò che fa la differenza è definire quali sono la modalità di finanziamento e in quale combinazione il settore pubblico e quello privato giocano un ruolo nonché identificare i settori d’intervento prioritari.

Innanzitutto, entrambi i programmi non sono affatto autentici piani di investimenti pubblici. Al contrario, prevedono un’ampia partecipazione del settore privato, sulla base del presupposto che i fondi pubblici non sono sufficienti a colmare gap di investimenti stimati nell’ordine di centinaia di miliardi l’anno.

In Europa, la Commissione e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) hanno ideato il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (FEIS), alimentato in parte dal bilancio comunitario e dalle riserve della BEI, in parte da contributi volontari degli stati, per un totale di circa 63 miliardi. Non si tratta di un budget da cui attingere in maniera diretta, ma di un fondo di garanzia di prima perdita su progetti altamente rischiosi, atto a incoraggiare in gran misura la partecipazione degli investitori privati in un epoca in cui progetti strategici nell’economia reale faticano a concretizzarsi. In sostanza, l’obiettivo di realizzare 315 miliardi di euro di investimenti in tre anni verrà finanziato per il 20% con risorse pubbliche e per l’80% attraverso il mercato.

Dall’altra parte dell’Atlantico, Wilbur Ross e Peter Navarro, consiglieri economici di Trump (il primo sarà il Segretario al Commercio nella sua Amministrazione), in un’analisi su “Trump Versus Clinton On Infrastructure” hanno messo in evidenza l’aspetto “innovativo” del piano Trump: il passaggio da un tradizionale sistema di finanziamento con emissione di titoli pubblici a un nuovo modello di partnership pubblico-privata. Gli autori ritengono che per mobilitare un vasto intervento del mercato sia necessaria una componente di capitale di rischio per coprire tutti quei costi legati alla rischiosità dell’investimento, nella misura di 167 miliardi di dollari, che realizzeranno un totale di mille miliardi di investimenti. Per attirare tale capitale di rischio dal settore privato verrà applicato un credito d’imposta dell’82%, che di fatto restituisce ai finanziatori larga parte del loro contributo e riduce il costo del finanziamento. Secondo Ross e Navarro questa defiscalizzazione risulterà revenue neutral, perché compensata da maggiori entrate fiscali future generate sia dal reddito dei nuovi posti di lavoro sia dai profitti dei nuovi contratti di appalto, creati nell’ambito del piano Trump.

Kevin De Good, del Center for American Progress, ha commentato che il credito d’imposta pensato da Trump non farà che trasferire risorse dal governo federale alle tasche dei ricchi finanziatori di Wall Street. L’idea di Trump ricalca le ricette della Reaganomics: meno tasse e più deregolamentazione forniscono gli incentivi ad investire di più generando nuove entrate per il bilancio pubblico. Ai tempi di Reagan ciò provocò sì uno stimolo alla crescita, ma produsse l’inizio dell’aumento della diseguaglianza. Inoltre, in un secondo momento Reagan fu costretto a rialzare le tasse, a causa di un deficit federale in continua crescita. Oggi le previsioni elaborate dal Tax Policy Center dicono che sotto la Trumponomics lo 0,1% più ricco della popolazione otterrà una riduzione delle tasse del 14% del loro reddito, mentre i redditi medi avranno un taglio di meno del 2% del loro reddito.

L’altro aspetto cruciale dei due piani riguarda la diversa strategia di crescita a cui si rifanno. Quando si parla di piano Juncker si commette spesso l’errore di concentrarsi solo sul FEIS, omettendo di ricordare gli altri due pilastri del piano. Uno comprende due strumenti (il Portale dei Progetti di Investimento Europei e il Polo Europeo di Consulenza sugli Investimenti) che hanno il compito di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di investimenti in Europa; l’altro, quello su cui la Commissione ripone maggiori aspettative di lungo periodo, prevede il miglioramento del contesto normativo all’interno del Mercato Unico in settori strategici come quello dell’energia rinnovabile, del mercato dei capitali e del digitale, per rendere l’Europa un terreno fertile agli investimenti. L’iniziativa dell’attuale Commissione è quindi coerente con gli obiettivi della Strategia Europa 2020, varata nel 2010, che prevede la transizione a un’economia basata su basse emissioni di carbonio. Il piano Juncker, grazie anche a un’azione di selezione dei progetti, mira a garantire una continuità rispetto a target di lungo periodo fissati dalla precedente Commissione.

Il piano infrastrutturale proposto da Trump, per quanto si apprende dal suo programma economico, è finalizzato a creare milioni di posti di lavoro, senza tuttavia imprimere una direzione strategica al tipo di crescita. L’attenzione è sulle infrastrutture tradizionali (trasporti, la fornitura di acqua pulita, le reti di energia elettrica). Sebbene queste siano priorità degli Stati Uniti di oggi – “Più di 60.000 ponti sono considerati ‘strutturalmente carenti’; ritardi nel traffico costano all'economia statunitense più di 50 miliardi di dollari all'anno e la maggior parte delle strade principali sono classificati in ‘condizioni meno che buone’” – non sono definiti chiari target strategici, quali la transizione verso l’uso di energia rinnovabile. Il programma energetico di Trump prevede di “annullare tutte le azioni esecutive fatte da Obama che distruggono posti di lavoro… ridurre ed eliminare tutte le barriere alla produzione di energia responsabile”.

Il piano Juncker, dopo più di un anno di attività, è riuscito a raggiungere gli obiettivi quantitativi che si era preposto. Del piano Trump, per ora solo una “dichiarazione di intenti”, è prematuro stabilire la sua capacità di realizzare il moltiplicatore previsto. Entrambi fanno ampio affidamento sulla mano privata per la realizzazione di infrastrutture pubbliche che dovrebbero andare a beneficio di tutta la popolazione. Il piano Juncker sinora ha prodotto concentrazione territoriale, laddove la maggior parte dei progetti si colloca nei paesi più ricchi dell’UE, mentre il piano Trump, basandosi sulla defiscalizzazione, potrebbe produrre un aumento della diseguaglianza di reddito e non essere fiscalmente sostenibile.

In tempi di eccesso di risparmio ed elevati livelli di debito pubblico il cofinanziamento pubblico-privato è una possibile soluzione, ma non deve compromettere il ruolo guida da parte dei policy maker sul tipo di crescita da imprimere attraverso maggiori investimenti in quei settori che permettono una crescita inclusiva delle persone e sostenibile per l’ambiente. L’Europa sembra intenzionata a percorrere questa strada, ma più attenzione andrebbe data al tema degli squilibri territoriali. Negli Stati Uniti di Donald Trump, che resta pur sempre un uomo d’affari, è ancora presto per giudicare, ma ad aumentare saranno probabilmente gli investimenti laddove sono i rendimenti privati a essere maggiori, e non la produzione di beni pubblici. 

Olimpia Fontana è ricercatrice del Centro Studi sul Federalismo

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