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Garantire lo Stato di diritto nell'Unione europea

Andrea Cofelice
Commento n. 91 - 24 ottobre 2016

 


 

Oggi in Europa lo Stato di diritto – concetto che richiama principi di legalità, certezza del diritto, divieto di arbitrarietà del potere esecutivo, indipendenza e imparzialità del giudice, controllo giurisdizionale effettivo, uguaglianza davanti alla legge – non gode di buona salute. Verrebbe spontaneo riferirsi ai recenti casi di Ungheria e Polonia che, a partire dal 2011, hanno progressivamente adottato una serie di norme e prassi che di fatto limitano l’autonomia delle Corti costituzionali, della magistratura e della stampa. Tali casi rappresentano, tuttavia, solo le manifestazioni più evidenti di una generale sofferenza dello Stato di diritto, diffusa in tutta Europa.

Eppure non mancano, a livello europeo, norme e meccanismi di tutela. Lo Stato di diritto rappresenta, infatti, uno dei valori fondanti e identitari dell’UE, insieme al rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dei diritti umani, che le istituzioni comunitarie e gli stati membri si sono impegnati a tutelare e promuovere (artt. 2, 3 e 13 TUE). La promozione di tali valori guida l’azione dell’UE anche sul piano internazionale (artt. 8, 21, 32, 42 TUE), ed il loro rispetto è precondizione per diventarne paese membro (art. 49 TUE).

Il Trattato di Lisbona, inoltre, prevede due diversi meccanismi sanzionatori in caso di violazione (o evidente rischio di violazione) dei suddetti valori. Il primo, di natura giurisdizionale, consiste nel ricorso di infrazione che può essere promosso dalla Commissione (o, ipotesi più rara, da uno stato membro: artt. 258-260 TFUE). A questo si aggiunge un meccanismo di natura politica che, se portato fino alle estreme conseguenze, può anche determinare la decisione da parte del Consiglio di sospendere alcuni dei diritti di uno stato membro sanciti dai trattati, incluso il diritto di voto in Consiglio (art. 7 TUE).

Ad oggi, tuttavia, è mancata la volontà politica di attivare tali strumenti. Il meccanismo previsto dall’art. 7 non è mai stato utilizzato sia per la complessa procedura richiesta sia per la generale riluttanza, da parte degli stati, a ricorrere a sanzioni politicamente tanto gravi, una sorta di “arma atomica”. La stessa Commissione europea si è mossa sempre in maniera estremamente cauta su questo tema, tanto da essere sovente accusata di doppiopesismo (double standard): da un lato, controlli oculati sulle finanze pubbliche; dall’altro, eccessiva indulgenza nei confronti di violazioni (ben più rilevanti) dello Stato di diritto.

È necessario, pertanto, promuovere dei processi politici che possano contribuire ad innescare tale volontà.

Un primo tentativo in tal senso è stato compiuto nel dicembre 2014, sotto presidenza di turno italiana, quando il Consiglio Affari generali ha deciso di istituire, con cadenza annuale, un dialogo tematico strutturato fra gli stati membri su specifici aspetti relativi alla salvaguardia dello Stato di diritto in Europa. L'obiettivo dichiarato è quello di promuovere la diffusione di una cultura del rispetto dello Stato di diritto nell’UE attraverso il dialogo, la collaborazione e la condivisione di buone pratiche, in un'ottica essenzialmente preventiva (e non sanzionatoria). Ad oggi si sono svolte due discussioni tematiche: nel novembre 2015 sul tema “Stato di diritto nell’era digitale”; nel maggio 2016 su “Rifugiati e stato di diritto”. È stato convenuto di effettuare una prima valutazione del processo entro la fine del 2016.

Pur rappresentando un passo in avanti, se non altro perché per la prima volta dall’adozione del Trattato di Lisbona il tema dello Stato di diritto è entrato nell’agenda dei lavori del Consiglio, i dialoghi tematici si sono rivelati sin qui poco efficaci.

Alcuni governi hanno pertanto avviato una riflessione per rivedere e rafforzare le modalità del dialogo. In particolare, nell'ambito del convegno “Europa: Stato di Diritto e Stato dei Diritti” (ospitato a Roma, il 3 ottobre scorso, dal Senato della Repubblica), i responsabili degli affari esteri ed europei di Belgio, Paesi Bassi, Italia e Francia hanno presentato la proposta di istituire in Consiglio Affari generali un meccanismo di “revisione tra pari” (peer review), al fine di verificare periodicamente il rispetto dello Stato di diritto nell’UE non per grandi temi, ma con riferimento al comportamento di ciascun paese membro (la proposta è di esaminare, a rotazione, quattro o cinque stati ogni anno).

Si tratta, in sostanza, di un meccanismo politico che trae ispirazione dall'“Esame periodico universale” (Universal Periodic Review) del Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite: l’intento è quello di far leva sulla forza persuasiva esercitata dagli stessi stati, chiamati a formulare raccomandazioni reciproche sul modo in cui rafforzare lo Stato di diritto a livello nazionale. Tali raccomandazioni avrebbero, tuttavia, un carattere non vincolante, al fine di preservare la natura dialogica e cooperativa del processo (condizione necessaria, del resto, per superare le prevedibili resistenze di alcuni membri e ottenere il consenso in Consiglio).

Nonostante tale limite, la proposta è di notevole interesse. La revisione tra pari non solo amplierebbe il quadro degli strumenti utilizzabili in caso di violazioni dello Stato di diritto, ma renderebbe anche meno problematico l’impiego dell’art. 7 TUE, rispetto al quale potrebbe fungere da meccanismo di early warning. Inoltre, la regolarità del dialogo consentirebbe di inserire in maniera stabile il tema dello Stato di diritto nell’agenda del Consiglio, garantendo così una sorveglianza continua e reciproca fra gli stati membri, nonché la possibilità di risolvere eventuali problemi a livello politico prima ancora che giurisdizionale. Sul piano internazionale, l’esistenza di tale meccanismo potrebbe conferire maggior peso e credibilità alle richieste di riforma nei settori dello Stato di diritto che l’UE continua ad avanzare in diversi paesi terzi.

La proposta non è stata ancora ufficialmente presentata in Consiglio, ma si sta lavorando per allargarne la base di sostegno. È opportuno anticipare fin d’ora, anche in base all’esperienza maturata nell’ambito delle Nazioni Unite, che tale meccanismo sarà tanto più efficace quanto più riuscirà a garantire, perlomeno: a) un ampio coinvolgimento di attori non governativi nel processo di revisione, inclusi parlamenti, corti, istituzioni nazionali indipendenti per i diritti umani, organizzazioni di società civile; b) un adeguato monitoraggio dei seguiti (follow-up) dati dagli stati alle raccomandazioni ricevute, al fine di evitare che queste restino lettera morta.

L’auspicio è che il nuovo meccanismo di revisione tra pari possa essere quanto prima adottato e utilizzato per superare l’attuale immobilismo e l’insofferenza espressa da alcuni stati verso ogni forma di controllo, fermo restando che la soluzione più adeguata per promuovere il rispetto dello Stato di diritto sarebbe quella di affidarne il monitoraggio ad un’istituzione sopranazionale politicamente indipendente, che possa formulare raccomandazioni effettivamente vincolanti per gli stati. La Commissione europea, con la necessaria assistenza tecnica da parte dell’Agenzia per i diritti fondamentali, potrebbe svolgere tale ruolo. Ma per questo bisognerà sviluppare una riflessione in vista di una prossima riforma dei Trattati.

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