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Unione Europea: come non farci governare dalle crisi

Nicoletta Pirozzi, Pier Domenico Tortola, Lorenzo Vai
Commento n. 89 - 14 settembre 2016

  

Fare luce sui problemi politico-istituzionali del processo decisionale dell’Unione europea, Ue. È questo l’obiettivo di Governing Europe, il progetto lanciato un anno fa dal Centro Studi sul Federalismo (CSF) e dall’Istituto Affari Internazionali (IAI), dopo una riflessione sulle diverse crisi (economica, migratoria, di sicurezza e di consenso) che attanagliano l’Unione e svelano i limiti del suo sistema di governo, caratterizzato – nel bene e nel male – da un’architettura istituzionale unica al mondo.
L’assenza o il ritardo di risposte politiche europee, e la loro inadeguatezza di fronte alle sfide poste dai tempi nascono spesso da un’insufficiente volontà politica dei governi nazionali, alla quale si affiancano però numerose deficienze strutturali, non di rado generate da compromessi al ribasso tra i Paesi membri. Un circolo vizioso da cui è possibile uscire solo attraverso dei cambiamenti politico-istituzionali che tengano conto dell’alto livello di complessità ed interconnessione a cui è giunto il processo di integrazione europea. Governing Europe ha così prodotto uno studio finale che avanza una serie di proposte tese a rendere le decisioni prese dall’Ue più efficienti e democratiche.

Una nuova narrazione per una politica europea virtuosa

Perché gli Stati europei hanno deciso di unirsi, rinunciare a pezzi di sovranità e condividere spazi politici e decisionali? Le ragioni sono cambiate negli anni, e il grado di complessità raggiunto oggi dall’Ue ha reso più difficile illustrarle ai cittadini. Nel tempo le istituzioni europee hanno provato a rilanciare un nuovo discorso sull’Europa, ma senza grandi successi. Il risultato è stato quello di lasciare terreno ai movimenti euroscettici e ai loro racconti. In questa situazione, le istituzioni dell’Ue dovrebbero lavorare per imbastire una nuova narrazione politica, fondata sui suoi successi passati, e sulle opportunità future, in quattro ambiti: pace e sicurezza; democrazia e libertà; competitività e crescita sostenibile; welfare e giustizia sociale. Lo scopo di queste tematiche non dovrà essere solo quello di “aprire” l’Ue all’opinione pubblica, ma altresì indirizzarne i programmi politici negli anni a venire.

Negli ultimi anni la politicizzazione delle questioni europee è stata interpretata (specialmente dalle forze politiche tradizionali) soprattutto come una minaccia. L’arrivo delle crisi e l’incapacità dell’Ue di offrire risposte politiche tempestive hanno aperto la porta a movimenti euroscettici, populisti e nazionalisti, uniti nell’attaccare la mancanza di legittimità democratica della tecnocrazia di Bruxelles. La politicizzazione può e deve, però, trasformarsi in un’opportunità per avvicinare i cittadini europei al processo d’integrazione, rendendoli più partecipi sia dello sviluppo di un senso di comunità che della competizione politica. Avvicinare i cittadini all’Ue non è semplice perché essa stessa è oltremodo complessa. Una semplificazione della sua architettura istituzionale (e soprattutto dei suoi meccanismi di rappresentanza democratica) e una più facile comprensione dei benefici generati dalla sua legislazione sono due aspetti sui quali i decisori pubblici devono investire.

Integrazione differenziata per scongiurare la disintegrazione

L’Ue è “unita nella diversità”, ma il suo accresciuto livello di eterogeneità (soprattutto dopo l’allargamento del 2004-07) ha dato vita a numerose richieste di differenziazione che rischiano di mettere in discussione la sua tenuta. Come insegna la Brexit, è ormai necessario che l’Unione si doti di un modello di integrazione differenziata chiaro e formalizzato, in grado di soddisfare in tempo le richieste di “diversità” da parte di alcuni Stati membri, salvaguardando al contempo i suoi valori e principi fondamentali. Uno schema, questo, a cui dovrebbe fare da contraltare un sistema a sostegno “dell’unità”, che permetta a un nucleo centrale di Stati di aumentare il loro livello di integrazione attraverso cooperazioni rafforzate in ambiti tematici (es. sicurezza e difesa) e istituzionali (es. Eurozona).

L’intero processo di integrazione potrebbe risentire anche dall’eventuale fallimento dell’eurozona. Per questa ragione è necessario agire in quattro aree fondamentali per rafforzare la sua governabilità e resilienza rispetto alle crisi: politiche fiscali integrate; convergenza delle politiche economiche; strumenti di condivisione del rischio; legittimità democratica. Il completamento dell’Unione bancaria, la riforma e la comunitarizzazione del Meccanismo europeo di stabilità, l’istituzione di un Ministero del tesoro dotato di poteri esecutivi e fiscali, un maggior coinvolgimento del Parlamento europeo nei processi decisionali sono alcune delle proposte avanzate per rendere le politiche europee nei paesi dell’Eurozona più efficienti e democratiche.

Un’Unione più sociale e globale

La crisi economica ha ampliato le diseguaglianze tra i cittadini dell’Ue, minacciando la sostenibilità dell’intero progetto europeo e aprendo nuove fratture sociali e politiche sia tra gli Stati che al loro interno. Le ricette economiche “ordoliberali” si sono dimostrate incapaci di rilanciare la crescita, ragion per cui all’Ue viene richiesta l’adozione di un nuovo paradigma economico che riporti al centro dell’agenda europea programmi pubblici in materia di investimenti e politiche sociali. In tal senso il Piano Juncker è stato un buon inizio, ma va attuato in pieno, potenziato e affiancato da nuove iniziative. All’Ue dovrebbero spettare maggiori responsabilità nella promozione di diritti quali l’occupazione, soprattutto giovanile, l’educazione, la salute e la casa, in modo da sopperire alla mancanze dei governi nazionali laddove si presentino.

Il ruolo dell’Ue sulla scena internazionale non è mai stato adeguato al suo peso economico-commerciale e al suo potenziale diplomatico. Le motivazioni di questo squilibrio sono svariate e in buona parte riconducibili all’incoerenza dell’architettura istituzionale dell’Unione. Quest'ultima è stata parzialmente mitigata con le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona, innovazioni che, se sfruttate appieno, potrebbero aiutare l’Ue a perseguire le priorità che si è data nella sua Global Strategy, presentata dall’Alto Rappresentante lo scorso giugno. Se una semplificazione dei processi decisionali della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) richiederebbe una riforma dei Trattati, più facile è immaginare nel breve termine il lancio di una cooperazione strutturata permanente tra Stati desiderosi di avanzare nella loro integrazione nei settori della politica di difesa, insieme al rafforzamento delle capacità d’intervento al di fuori dei confini dell’Ue.

Il 2017, anniversario della firma dei Trattati di Roma, potrebbe costituire l’occasione di un vero rilancio dell’Ue, che parta dall’Italia e si fondi su un’agenda capace di riportare le ambizioni dell'integrazione europea all’altezza delle sue potenzialità. 

Nicoletta Pirozzi, Pier Domenico Tortola, Lorenzo Vai sono rispettivamente Responsabile di ricerca e Coordinatrice delle relazioni istituzionali allo IAI; Research Fellow all’Università degli Studi di Milano; Ricercatore al CSF e allo IAI.

L'articolo è apparso anche su Affarinternazionali.it

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