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Calma piatta per il federalismo fiscale

Stefano Piperno
Commento n. 85 - 7 luglio 2016

 

La lettura delle Relazioni della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale è sempre molto istruttiva. Come noto, la Commissione, composta da deputati e senatori, è stata istituita dall’art. 3 della legge n. 42/2009 che ne ha disciplinato le modalità di costituzione, le funzioni e le attività. Tra i numerosi compiti della Commissione vi è anche quello di verificare lo stato di attuazione della legge in questione – la 42/09 è una legge delega che richiedeva moltissimi provvedimenti attuativi – e riferire alle Camere ogni sei mesi. Nella corrente legislatura ne sono state presentate tre: il 7 agosto 2014, il 28 aprile 2015 e la più recente il 22 giugno 2016 (di fatto è stata gradualmente resa annuale). La relazione è molto ricca e approfondita, costituendo una delle poche occasioni – insieme alla Relazioni della Corte dei Conti – in cui amministratori locali, funzionari, studiosi e anche gente comune possono avere un quadro completo dello stato delle relazioni finanziarie tra amministrazioni centrali e locali.

Anche questa ultima edizione offre numerosi spunti di riflessione per chi voglia cercare di prefigurare il futuro del federalismo fiscale nel nostro Paese. Se ne possono individuare almeno tre. Il primo è più una sensazione che un vero e proprio spunto di riflessione. Nelle prime pagine della relazione emerge come una desolata rassegnazione al fatto che la “transizione” e la transitorietà dei rapporti finanziari tra Stato e autonomie locali è destinata a durare nel tempo con una significativa riduzione degli spazi di autonomia finanziaria e, specularmente, di crescita dei trasferimenti statali. “Dopo una prima fase in cui si è cercato di rafforzare la dimensione propria dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali si assiste adesso, da alcuni anni (e per una serie di fattori economici e finanziari che vanno ben oltre la dimensione nazionale) a un maggior peso del coordinamento statale ovverosia dell’esatto contrario dell’autonomia finanziaria.”. Come esempio principale viene richiamata l’abolizione della Tasi, che viene esplicitamente ritenuta “giustificabile solo ed esclusivamente dal punto di vista del consenso politico che l’esenzione può portare, ma non ha una base economica di nessun tipo”. Non si va però al di là di una presa d’atto di una tendenza, non necessariamente irreversibile, che ha una valenza politica assai rilevante rispetto al futuro dei rapporti tra centro e periferia del Paese.

Il secondo si desume dai contenuti della relazione rispetto all’attività consultiva e conoscitiva della Commissione. I provvedimenti più innovativi esaminati e buona parte delle audizioni intervenute sono relativi alla stima dei fabbisogni standard e della capacità fiscale dei Comuni delle Regioni a statuto ordinario (questa ultima aggiornata proprio nel 2016) e in genere al sistema dei trasferimenti perequativi, anche con opportune incursioni sulle esperienze di altri paesi. Il sistema è stato pressoché completato solo per i Comuni (ma non per Regioni e Province), ma non è ancora a regime: nel 2016 solo il 30 per cento del Fondo di solidarietà comunale viene ripartito sulla base della differenza tra fabbisogni standard e capacità fiscale. Sarebbe un peccato lasciarlo deperire per carenza di manutenzione e sviluppo. Un secondo importante ambito di analisi e approfondimento è relativo all’armonizzazione dei bilanci pubblici, sul quale sono stati fatti grossi passi in avanti per superare i guasti del cosiddetto “federalismo contabile”. Infine si segnala un approfondimento sul regime finanziario delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, rispetto al quale però si mantiene un atteggiamento molto (troppo) cauto rispetto a prospettive di graduale omogeneizzazione con quello delle Regioni a statuto ordinario.

Il terzo spunto deriva dal fatto che nella relazione non si tiene conto adeguatamente del fatto che il decentramento fiscale deve essere disegnato all’interno di un sistema coerente, progettando e attuando insieme le sue componenti principali (competenze e autonomia di spesa, fonti di entrata e autonomia di gestione, vincoli di bilancio e per l’indebitamento, sistema perequativo, controlli e strumenti di coordinamento tra livelli di governo) e garantendo adeguata certezza e stabilità alle trasformazioni in atto. Dopo i primi otto decreti attuativi approvati tra il 2010 e il 2011 la legislazione emergenziale ha di fatto completamente offuscato il disegno complessivo del federalismo fiscale nel nostro Paese e ancora non si vede alcun segnale di inversione di tendenza.

Sullo sfondo incombe la riforma costituzionale, richiamata solo con poche righe all’inizio della relazione, mentre i cambiamenti in essa contenuti per quello che concerne le relazioni tra i livelli di governo e il possibile riordino del “sistema delle conferenze” dovrebbero essere meglio analizzati anche relativamente alle disposizioni della legge n. 42/09 (si pensi alla costituzionalizzazione dei fabbisogni standard). Purtroppo il dibattito sul referendum pare attualmente più concentrato sullo scontro tra maggioranza e opposizione che sui rapporti tra centro e periferia.

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