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Brexit: la confusione regna "sovrana"

Giuseppe Martinico
Commento n. 82 - 28 giugno 2016

 

A poche ore dal voto del 23 giugno su tutti i giornali si scrive già della sicura uscita del Regno Unito dall’Unione europea (UE). Ma la faccenda è molto più complicata e il famoso termine dei due anni a cui si riferisce l’art. 50 del Trattato sull’UE (TUE) scatterà solo dall’avvenuta notifica dell’intenzione di uscire al Consiglio europeo, da parte del governo del Paese interessato, “salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine”. Non si sa molto della forma che dovrebbe avere tale notifica; di sicuro, appare chiaro dal Trattato che le istituzioni sovranazionali non possono obbligare il Regno Unito a notificare: Lo stesso Boris Johnson, uno dei protagonisti nelle settimane della campagna, ha da poco dichiarato “no need for haste over Brexit’”. Del resto si tratta di un passo cruciale, che ha importanti conseguenze per lo Stato notificante perché, come si chiarisce al par. 4 dell’art. 50: “Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano”. Sicuramente la ratio dell’art. 50 TUE esclude la possibilità di usare la notifica come arma per negoziare condizioni di membership più vantaggiose.


Va inoltre chiarito che i negoziati che si avviano dopo la notifica non hanno contenuto libero, dovendosi realizzare “alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo” e, secondo, il quadro delineato dall’art. 50: non sono, quindi, ammesse forzature unilaterali. Non è nemmeno corretto pensare che dal voto del 23 giugno o dalle dimissioni di Cameron si possa automaticamente dedurre l’obbligo, per il Regno Unito, di notificare la decisione di lasciare l’UE. Il referendum, come si ripete da mesi ormai, non è vincolante e il Parlamento è sovrano. Certo, apre degli spiragli e dei dilemmi politici importanti ma non è vincolante.

Le dimissioni di Cameron sono cosa ovvia: lui è l’artefice di tutto questo, non si aspettava di vincere in maniera tanto netta la General election del 2015, sperava forse che un esito diverso avrebbe permesso a Clegg di giocare un ruolo determinante nel fornirgli una “scusa” valida per annunciare la rinuncia al referendum. Cameron non ha tratto alcuna lezione dall’esito tutt’altro che scontato del referendum sull’indipendenza della Scozia. Non si aspettava nemmeno l’atteggiamento di Corbyn, che ben poco ha fatto per aiutarlo nella campagna per il Bremain.

Si tratta di un risultato che risponde alla qualità di una classe politica assolutamente inadatta, capace solo di scorporare le questioni spinose dalla propria agenda. A tutto ciò si aggiungano le discutibili scelte sulla titolarità del diritto di voto in questo referendum: potevano votare i cittadini del Commonwealth residenti nel Regno Unito, ma non i cittadini dell’UE, né i cittadini del Regno Unito residenti da più di quindici anni all’estero (su questo rimando alle riflessioni di Allan F. Tatham, nell’ultimo editoriale di Perspectives on Federalism).

Boris Johnson ha detto “We can be like Canada”, ma proprio il Canada è patria della celebre Reference della Corte Suprema sulla secessione del Québec, in cui si richiede una “clear majority” e una “clear question” per poter dedurre dal risultato referendario l’obbligo di negoziare l’eventuale uscita della Provincia francofona. Sul quesito va sottolineata la decisione – sulla scia di quanto suggerito dalla Electoral Commission – di sostituire il verbo “remain” a quello “stay” (utilizzato nel quesito del 1975, solo tre anni dopo dall’entrata del Regno Unito) e di evitare una campagna “yes vs. no”, formulando una domanda che non desse vantaggi a nessuna delle due alternative. Difficile, ai sensi del Clarity Act, considerare il 51,9% come “clear majority”.

Che scenari ora? Chi scrive non è certo dell’uscita del Regno Unito ma molto dipenderà dalle prossime settimane. Juncker ha chiarito che la Commissione gradirebbe un’uscita rapida (“as soon as possible”) e assicura che non vi saranno altri accordi, ma per alcuni sono frasi di circostanza, come forse ci si poteva aspettare. Da un lato, è giusto rispettare un voto popolare, dall’altro, il referendum nella storia dell’integrazione concede spesso il bis. È avvenuto in Irlanda e Danimarca, ad esempio in occasione della ratifica di alcuni Trattati europei.

C’è chi giura che in realtà il Regno Unito sia pronto a negoziare, che cosa non si sa (forse le celebri, e già una volta respinte al mittente, quote sui lavoratori cittadini dell’UE?), viste le recenti concessioni fatte dal Consiglio europeo dello scorso febbraio. In questo senso le dichiarazioni di Juncker potrebbero valere a chiarire, se qualcuno avesse dubbi a riguardo, che i negoziati si fanno in due. Uno stimolo in più in questo senso viene da Irlanda del Nord e Scozia, dove la maggioranza si è espressa per il “Bremain” e dove pare si sia (quasi) pronti ad un nuovo referendum per chiedere l’indipendenza da un eventuale Regno Unito fuori dall’UE. Il tutto assume contorni intriganti se si pensa che per la modifica dello status del Regno Unito sarà necessario anche il voto del Parlamento scozzese…

Di negoziati in ogni caso sentiremo e leggeremo visto che sarà necessario, anche in caso di uscita, chiarire i futuri scenari. Varie le opzioni: a) relazioni UK-UE nel quadro dello Spazio economico europeo; b) relazioni UK-UE nel quadro di un accordo di libero scambio; c) potrebbero essere firmati degli accordi bilaterali settoriali; d) il Regno Unito potrebbe essere un semplice “Stato terzo” (si vedano queste opzioni ricordate da Jean Claude Piris). Difficile prevedere anche quale sarà l’impatto sui cittadini e gli ex (?) cittadini dell’Unione in seguito ad una eventuale uscita, anche se non mancano le prime analisi giuridiche in questo senso.

C’è anche chi parla di una nuova fase costituente per l’Unione, da inaugurare come si sono (malamente) chiuse le vecchie: con una Convenzione. Chi scrive ha un ricordo non positivo dell’esperienza delle Convenzioni. Credo che l’UE abbia già una Costituzione: vale la pena di ricordare come l’interprete dei Trattati europei, la Corte di giustizia, non abbia smesso di usare il gergo costituzionale, anche all’indomani delle sonore sberle olandesi e francesi al c.d. Trattato-costituzionale. Si tratta, del resto, di una scelta coerente perché ben prima delle Convenzioni, la stessa Corte aveva definito i Trattati come la propria “Carta costituzionale”. Tuttavia, l’UE ha bisogno di coinvolgere i cittadini, quei cittadini che non ne colgono il valore aggiunto e in questo senso, forse, va letto l’appello a una nuova stagione “costituente”

Allo stesso tempo, Salvini e Le Pen evocano i fantasmi di altri referendum, brindando al risultato del voto e, soprattutto, dando un fondamentale contributo alla confusione mediatica, l’unica a regnare “sovrana” dopo il 23 giugno.

Professore associato di diritto pubblico comparato alla Scuola Sant’Anna di Pisa, Research Fellow del Centro Studi sul Federalismo, Torino e Honorary Professor allo European Law Research Centre dell’Università di Henan, Kaifeng.
La versione integrale del testo è disponibile su http://www.diritticomparati.it/

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