Il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2016: implicazioni per il federalismo interno
Stefano Piperno
Commento n. 79 - 17 maggio 2016
Il dibattito sul Documento annuale di economia e finanza (DEF) recentemente presentato dal governo al Parlamento è stato sinora dominato dalle problematiche attinenti la possibilità di garantire manovre espansive per l’economia nazionale attraverso l’allentamento dei vincoli europei. In realtà, questo documento dovrebbe garantire soprattutto l’integrazione del sistema di “governance multilivello” italiano in quello europeo per il coordinamento delle politiche economiche e di bilancio, sulla base delle disposizioni contenute nella normativa europea (il patto Euro Plus, i c.d. six pack e two pack e il fiscal compact) e nella loro legislazione italiana attuativa (l.c. n.1/2012 e l. n.243/2012) nonché in quella di contabilità e finanza pubblica (l. 196/2009 e l. n. 39/2011) e nella legge delega sul federalismo fiscale (l. n.42/2009), alcune delle quali sono state recentemente sottoposte ad ulteriori significative proposte di modifica.
Esso è composto da diversi documenti da presentare alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno. I due principali, il Programma nazionale di stabilità (PNS) e il Programma nazionale di riforma (PNR), devono essere inviati alla Commissione e al Consiglio dell’Unione europea entro il 30 aprile. La Commissione li valuta ed esprime raccomandazioni (Country Specific Recommendations, CSR) per il successivo ciclo. Gli indirizzi e gli orientamenti contenuti in questi documenti incidono profondamente sui bilanci di Regioni e Enti locali, visto il peso delle amministrazioni subnazionali nella spesa pubblica finale. Ciò ha reso necessario una partecipazione delle Regioni alla predisposizione del DEF, che effettivamente si è sviluppata nel corso del tempo attraverso la creazione una struttura tecnica dedicata della Conferenza delle Regioni e delle province autonome, con il compito di predisporre un Focus regionale di sintesi delle azioni di riforma attuate sui territori regionali. In questa maniera il Programma nazionale di riforma negli ultimi anni ha introdotto al suo interno anche un’analisi delle azioni delle Regioni funzionali al rispetto delle raccomandazioni dell’Unione pervenute l’anno precedente (peraltro questo anno retrocessa al rango di appendice che non fa parte del vero e proprio PNR) e tra i documenti che compongono il DEF è presente un Allegato infrastrutture che contiene delle declinazioni regionali rispetto alle priorità nazionali per quanto concerne le politiche infrastrutturali volte a coprire i gap esistenti nel paese nei vari settori.
A una attenta lettura dei vari documenti che si sono succeduti nel corso degli anni la componente regionale del DEF nel suo complesso risulta però più una razionalizzazione ex post degli interventi regionali (spesso un mero elenco di leggi che non contiene una valutazione dei loro risultati), senza ancora un adeguato coordinamento a livello orizzontale (tra Regioni) e verticale tra Stato e Regioni (nonché tra Regioni ed enti locali). Non è quindi casuale che su questi aspetti il dibattito pubblico sia stato insufficiente. La declinazione regionale della politica economica nazionale nel contesto europeo appare in effetti ancora troppo concentrata sulle azioni connesse all’utilizzo dei Fondi strutturali dell’UE, e questo nuovo sistema di programmazione multilivello è rimasto in gran parte una strategia nazionale senza un chiaro legame con le politiche regionali. Da questo punto di vista si tratta di una occasione mancata per quello che concerne le prospettive del nostro federalismo interno.
In conclusione, il PNR non è sinora diventato una sede di adeguata verifica sulla coerenza e complementarità delle politiche strategiche delle diverse Regioni. Occorrerebbe allora ripensare i meccanismi procedurali e, ancora di più, i contenuti da introdurre per sviluppare il profilo territoriale/regionale del DEF. Un’agenda di lavoro a ciò finalizzata dovrebbe rispondere ad almeno cinque ordini di esigenze, incentrate sulla necessità di:
i. inquadrare le politiche regionali all’interno delle nuove dimensioni economico-spaziali emerse a livello meso-regionale e sovranazionale. Numerosi studi in questi ultimi anni hanno messo in luce il carattere multiregionale dello sviluppo in Italia e sottolineato la necessità di politiche di tipo “meso” per ambiti che travalicano i confini amministrativi regionali;
ii. identificare delle politiche nazionali urbane esplicite (il governo Monti aveva istituito nel 2013 un Comitato interministeriale per le politiche urbane che però non ha funzionato) che sappiano adeguarsi ai modelli di policentrismo regionale che emergono dai più recenti schemi di programmazione territoriale regionale;
iii. legare le politiche regionali a livello sub regionale con quelle legate alla riorganizzazione amministrativa dei territori; anche l’identificazione delle articolazioni sub-regionali dello sviluppo, che potrebbero costituire punto di riferimento per promuovere politiche di sviluppo “orientate ai luoghi” non emerge nei diversi documenti, pur potendo costituire un elemento assai utile per l’attuazione delle riforma dell’organizzazione territoriale amministrativa del nostro Paese (abolizione delle Province, aggregazione dei Comuni attraverso fusioni e unioni, altre forme di cooperazione);
iv. completare in maniera sistematica la riforma del federalismo fiscale garantendo alle Regioni la possibilità di svolgere un efficace coordinamento della finanza locale;
v. legare più strettamente le politiche regionali ordinarie con quelle straordinarie legate ai fondi strutturali europei.
L’agenda è impegnativa e andrà verificata anche alla luce della recente riforma costituzionale, che innova profondamente il sistema di relazioni intergovernative con l’introduzione di un Senato espressione del sistema autonomistico e con la previsione di un riordino del sistema delle conferenze. La migliore riforma da inserire nel PNR sarebbe proprio quella della creazione di un efficace meccanismo di governance multilivello.