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L' accordo UE-Turchia sui migranti: legittimità ed efficacia

Andrea Cofelice
Commento n. 78 - 18 aprile 2016

 


 

Agli inizi di aprile è diventato operativo l’accordo Unione Europea-Turchia sui migranti, un pacchetto di misure inizialmente concordate nel piano d’azione comune del 29 novembre 2015, successivamente sancite nella Dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo europei del 7 marzo 2016, infine ribadite nella Dichiarazione del Consiglio Europeo del 17-18 marzo 2016.

L’UE auspica che la cooperazione con la Turchia possa essere funzionale al ripristino del controllo delle frontiere sulla rotta del Mediterraneo orientale e dei Balcani occidentali, entro la primavera del 2016, e al mantenimento dei flussi migratori il più possibile lontano dai confini europei (sono state invocate analogie con il “modello australiano”). L’imponente numero di arrivi registrato nel 2015 (circa un milione di persone, di cui 850.000 nella sola Grecia), oltre ad aver reso largamente inapplicabili le regole di Dublino, ha messo in crisi il regolare funzionamento dell’area Schengen, inducendo l’UE ad adottare “qualsiasi misura necessaria” (whatever is necessary) per tentare di salvaguardare il sistema comune di asilo e l’area di libera circolazione.

Tale esigenza, tuttavia, sembra essersi imposta al costo di comprimere standard consolidati in materia di protezione dei richiedenti asilo. Numerosi sono i dubbi sulla legittimità ed efficacia dell’accordo, nonché sulla sua natura giuridica – una Dichiarazione, dunque uno strumento di soft-law che non richiede il coinvolgimento del Parlamento europeo e di quelli nazionali.

La criticità principale riguarda la possibilità per l’UE di rimpatriare in Turchia non solo i migranti economici che hanno compiuto in maniera irregolare la traversata dalla Turchia alla Grecia, ma anche persone in cerca di protezione internazionale, in considerazione del fatto che la Turchia rappresenterebbe un “paese terzo sicuro”. L’applicazione di tale concetto è regolata da rigorose garanzie sostanziali e procedurali, contenute nella Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 (art. 33) e nella Direttiva procedure del 26 giugno 2013 (art. 38).

Che la Turchia soddisfi pienamente i requisiti di “paese terzo sicuro”, ai sensi di tale normativa, resta una questione aperta. È sufficiente ricordare che la Turchia applica la Convenzione del 1951 con limitazioni geografiche, concedendo lo status di rifugiato ai richiedenti asilo provenienti dall’Europa, e solo una protezione temporanea e limitata a chi proviene da altre aree, inclusa la Siria. Inoltre, molte organizzazioni non-governative, incluse Amnesty International e Human Rights Watch, oltre a denunciare casi di violazione del principio di non-refoulement, sostengono che in Turchia i rifugiati non siano sempre al sicuro da trattamenti inumani e degradanti, circostanze recentemente confermate dalla Corte europea dei diritti umani, nei casi Abdolkhani and Karimnia v. Turkey del 2009 e SA v. Turkey del 2015.

Il riconoscimento della Turchia quale “paese sicuro” consentirebbe alle autorità greche di applicare procedure accelerate per l’analisi delle richieste di asilo, che potrebbero essere giudicate infondate o inammissibili (spianando così la strada al rimpatrio in Turchia) non a seguito di un attento esame individuale, come da prassi, ma semplicemente in considerazione del fatto che i richiedenti asilo godrebbero già di protezione internazionale in Turchia, o potrebbero lì ottenerla. Nonostante tutte le rassicurazioni del caso, alcuni organismi delle Nazioni Unite temono che il ricorso a tale procedura accelerata potrebbe trasformarsi, in pratica, in una forma di espulsione collettiva di potenziali rifugiati, circostanza che costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale.

Un ultimo aspetto controverso riguarda il cosiddetto meccanismo di reinsediamento “1 a 1”, in base al quale, per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalla Grecia, un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia nell’UE, con l’intento di evitare che i migranti si affidino ai trafficanti. Al netto delle problematiche giuridiche discriminando fra siriani e richiedenti asilo di altre nazionalità il meccanismo potrebbe violare l’art. 3 della Convenzione del 1951), l’efficacia del programma dipenderà dal numero di posti messi a disposizione per i reinsediamenti dei siriani in Europa.

Attualmente, i circa 70.000 posti proposti dalla Commissione a governi che già in passato si sono mostrati estremamente reticenti ad attuare simili misure, sono ben al di sotto del numero di siriani che si stima siano presenti in Turchia (circa 2 milioni). Tali considerazioni consentono di mettere in risalto un paradosso intrinseco all’accordo: per raggiungere l’obiettivo di una significativa riduzione degli arrivi e di un aumento dei trasferimenti in Turchia, l’UE si troverebbe costretta a comprimere in maniera significativa le proprie salvaguardie legali, esponendosi potenzialmente a violazioni del diritto internazionale e comunitario su temi quali la detenzione dei migranti, i respingimenti collettivi ed il diritto ad un effettivo ricorso. D’altro canto, qualora si procedesse ad una applicazione pienamente conforme alla normativa internazionale, il numero di rimpatri in Turchia potrebbe essere di gran lunga inferiore ai desiderata, con il rischio di trasformare l’accordo nell’ultima di una serie di misure scarsamente efficaci sul fronte della gestione delle migrazioni.

Saranno le modalità di attuazione a costituire il test principale per valutare legittimità ed efficacia dell’accordo. Il percorso primario a disposizione dei richiedenti asilo per contestare eventuali violazioni è quello di ricorrere ai tribunali greci, i quali potrebbero rinviare la questione alla Corte di giustizia dell’UE; in alternativa, una volta esauriti i ricorsi interni, i richiedenti potrebbero ricorrere alla Corte europea dei diritti umani. Sarebbe opportuno, tuttavia, che l’Europa giocasse d’anticipo, procedendo immediatamente ad istituire un meccanismo di monitoraggio indipendente sull’applicazione dell’accordo, con la partecipazione di membri del Parlamento europeo, organismi internazionali e organizzazioni non-governative, dichiarandosi al contempo pronta a modificare o sospendere le operazioni di rimpatrio qualora dovessero emergere gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani.

Quel che è certo è che l’UE non uscirà dall’attuale crisi migratoria accumulando misure straordinarie e temporanee (come quella in questione), o semplicemente scaricando i costi sui paesi limitrofi. Tali politiche, anzi, potrebbero favorire la destabilizzazione di quei paesi, mettendo a rischio la stessa sicurezza europea. Sarebbe invece auspicabile che si aprisse finalmente un dibattito sui modelli “sostenibili” di gestione delle migrazioni, che, da un lato, contemplino riforme interne ispirate alla solidarietà e condivisione degli oneri (da ultimo, la riorganizzazione del sistema di Dublino e la creazione di una guardia di frontiera europea); dall’altro, realizzino una più efficace proiezione dell’UE sul piano internazionale, tale da consentirle di promuovere la sicurezza e la stabilizzazione dell’area mediterranea, nonché di agire alla radice del fenomeno migratorio, attraverso l’attuazione di programmi di sviluppo, capacity-building e reinsediamento.

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