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Piano Juncker un anno dopo: un approccio integrato e dinamico agli investimenti

Olimpia Fontana
Commento n. 67 - 1 dicembre 2015

 

Circa un anno fa il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker lanciava il “Piano di investimenti per l’Europa”, divenuto poi semplicemente “piano Juncker”, con l’obiettivo di invertire la tendenza al ribasso degli investimenti in Europa. Dopo un lungo processo decisionale, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno approvato il 25 giugno scorso il regolamento che autorizza l’istituzione del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) e all’inizio di ottobre il piano è stato ufficialmente presentato a Bruxelles in chiave promozionale ai principali stakeholders, ovvero Stati membri dell’Ue, banche di promozione nazionale, investitori privati. Dal lancio del piano i primi risultati si sono già materializzati, sia con contributi nazionali al Feis da parte di Germania, Francia, Italia, Polonia, Gran Bretagna e, in misura minore, Spagna, Lussemburgo, Slovenia, Bulgaria per un totale di 42 miliardi di euro, sia con la firma dei primi progetti in settori che vanno dalla ricerca e sviluppo di nuovi trattamenti sanitari allo sfruttamento di energie rinnovabili. La sfida maggiore per il piano consiste nel mettere in comunicazione due aspetti fortemente legati: da un lato l’abbondante disponibilità di capitale privato, attualmente bloccato da un clima di forte sfiducia e incertezza verso l’andamento dell’economia reale, e, dall’altro, iniziative imprenditoriali con un forte potenziale di crescita e di occupazione.

Circa il primo aspetto, è opportuno considerare che il piano deve fare i conti con una caratteristica tipicamente europea: un sistema finanziario in cui il 70% circa del fabbisogno finanziario delle imprese è fornito dalle banche. Dopo la scoppio della crisi finanziaria questa struttura banco-centrica si è rivelata essere una profonda debolezza per l’Europa, perché nel periodo precedente la crisi il surplus di risparmio, proveniente da paesi come Germania, Olanda, Danimarca, veniva veicolato verso i paesi in deficit di capitale (soprattutto Grecia e Cipro) proprio attraverso il prestito interbancario. La stretta creditizia ha quindi bruscamente tolto al settore privato linfa vitale per le sue attività di investimento.

In un recente intervento all’Ocse, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha sottolineato la necessità per l’Europa di diversificare le fonti di finanziamento in modo da rendere il suo sistema finanziario più simile a quello di Stati Uniti e Regno Unito, dove la maggior parte dei capitali è reperita sul mercato. Tuttavia, come riportano studi dell’Ocse stessa, i finanziatori “pazienti”, quelli più compatibili con investimenti in infrastrutture, sarebbero gli investitori istituzionali, come i fondi pensione e le compagnie assicurative, i quali però presentano una limitata esposizione verso progetti di lungo termine, a causa di mancanza di informazioni dettagliate circa il rapporto tra rischio e rendimento di ciascun progetto. Un altro ostacolo importante è la mancanza di un quadro regolamentare unico per il mercato dei capitali. A questo proposito, la Commissione ha presentato, il 30 settembre, un “Piano d’azione per costruire l’Unione del Mercato dei Capitali”, con una serie di misure per rilanciare la cartolarizzazione di alta qualità e semplificare la raccolta di capitali per le piccole e medie imprese.

Un ulteriore punto importante riguarda il capitale proveniente dai fondi sovrani, ovvero fondi di investimento posseduti da Stati, generalmente asiatici, che hanno accumulato immense ricchezze vendendo materie prime. Dopo lo scoppio dalla crisi finanziaria i fondi sovrani sono cresciuti a ritmo forsennato, rivolgendo la loro attenzione verso un occidente sempre più bisognosi di liquidità. Recentemente la Cina ha dimostrato interesse nei confronti dell’Ue, dicendosi disponibile a partecipare al Feis con un contributo tra i 5 e i 10 miliardi di euro. Il coinvolgimento di fondi sovrani, tuttavia, pone questioni di ordine geopolitico, laddove il loro controllo spesso è in capo a Stati non democratici, nonché tecnologico, quando dietro all’investimento si nasconde una strategia di espropriazione di know-how pregiato.

In un simile contesto si può pensare a un maggior utilizzo di strumenti di matrice europea, tenendo conto del fatto che l’eurozona nel suo complesso gode di un eccesso di risparmio. Ipotesi fattibili nel breve periodo potrebbero riguardare un migliore utilizzo dei fondi strutturali, così come incoraggiato dalla stessa Commissione, o un intervento da parte della Bce, la quale potrebbe mettersi a disposizione dell’economia reale dichiarandosi pronta a supportare il piano attraverso l’acquisto di titoli della Bei, il cui ricavato potrebbe confluire nel Feis. Nell’ambito dell’attuale quantitative easing ci sarebbe spazio di manovra per il reperimento di circa 120 miliardi di euro l’anno. Inoltre la sola presenza della Bce potrebbe bastare a creare un clima di fiducia intorno al piano. Nel medio periodo, poi, l’introduzione di risorse proprie in senso stretto, ovvero tasse europee come la carbon tax o la tassa sulle transazioni finanziarie, accrescerebbero la capacità e l’autonomia di manovra del piano.

Per quanto riguarda le iniziative imprenditoriali, il vice presidente della Bei Ambroise Fayolle ha ricordato che il piano Juncker è un meccanismo guidato dalla domanda e che la Bei può mettere in comunicazione le controparti, ma non può far sì che i progetti accadano. Per fornire le attività di supporto e mediazione necessarie la Bei ha quindi istituito un Polo di consulenza che fornisce esperienza e assistenza tecnica per rendere i progetti di investimento attraenti agli occhi dei finanziatori. Un altro modo per favorire la creazione di una cultura dell’investimento in infrastrutture è rappresentata dalla partecipazione, sia in termini di capitale sia di promozione, delle banche nazionali di sviluppo, istituzioni antiche e di larghe dimensioni, come la Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW) in Germania e la Cassa Depositi e Prestiti in Italia.

La scelta di strutturare il piano Juncker intorno a una fitta rete di rapporti tra la Bei e le banche nazionali di sviluppo va portata avanti secondo una precisa strategia: liberare il settore pubblico dal ruolo marginale a cui è stato relegato dall’analisi economica neoclassica, e attribuirgli la funzione di creatore del mercato, che finanzia e promuove in prima persona progetti che altrimenti il settore privato trascurerebbe. L’Europa dovrebbe ispirarsi di più al caso americano, dove, per esempio, senza investimenti pubblici nell’industria informatica negli anni sessanta e settanta oggi forse non esisterebbero tecnologie così diffuse come il touchscreen negli smartphone.

Con questo modello in mente, le istituzioni europee dovrebbero non solo sfruttare tutti gli strumenti a disposizione per fornire in modo stabile e duraturo i capitali necessari, sia pubblici che privati, ma anche fare in modo che questi capitali siano diretti a supportare attività in cui l’imprenditoria privata non si arrischia. È vero che esiste una lista aperta di progetti candidati a ricevere supporto dal Feis, ma in un piano “guidato dalla domanda” del settore privato poco, se non un processo di selezione, garantisce che a essere realizzati siano progetti in linea con una visione organica di cambio di paradigma dell’economia. Come sostiene l’economista Mariana Mazzucato, un approccio dinamico alla politica industriale inizia con il darsi una direzione, individuare la sfida da affrontare, e attorno ad essa mettere in modo tutti i settori dell’economia coinvolti. Per l’Europa questa sfida non può che essere la decarbonizzazione della propria economia.

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