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La crisi greca e i rischi di dis-integrazione europea

Roberto Palea
Commento n. 60 - 13 luglio 2015

 

A partire dal 2005, quando la Francia bloccò il processo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea (UE), questa, nonostante la circolazione nell’Eurozona di una moneta comune, ha progressivamente accentuato i propri caratteri intergovernativi. Nelle decisioni più rilevanti, gli Stati membri, attraverso il Consiglio europeo, hanno progressivamente esautorato le istituzioni europee (nonostante la coraggiosa resistenza del Parlamento europeo e della Commissione Juncker) accentrando le responsabilità e le prerogative di governo.

L’UE si sta organizzando secondo il modello confederale, nel quale le scelte politiche sono influenzate in modo determinante dallo Stato più forte, la Germania di Merkel e Schaeuble, che ha imposto alla politica economica i criteri ordo-liberali e il mito dell’austerità in cui crede, come rimedio di tutti i mali.

Anche la crisi greca è stata gestita direttamente dal Consiglio degli Stati membri dell’Eurozona (Euro Summit), tramite un organismo di consulenza, negoziazione e controllo, la Troika, nel quale il Fondo Monetario Internazionale, svolge un ruolo importante, accanto a Commissione e BCE.

Il Consiglio dell’Eurozona e la Troika, nel 2010, all’epoca del “programma di salvataggio” della Grecia, non hanno saputo riconoscere che la Grecia era già, per molti aspetti, uno Stato fallito, gravato da 300 miliardi di euro di debiti, pari al 130% del PIL, e un deficit annuale pari al 15,5% del PIL, mentre l’indebitamento cresceva del 12% all’anno.

La corruzione, l’evasione fiscale, il clientelismo, l’oligarchia, il privilegio, ne soffocavano e ne soffocano tuttora ogni possibilità di ripresa economica, di riduzione dell’elevatissimo tasso di disoccupazione, di possibilità di ripagare il debito accumulato.

Da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Essa non era e non è solo il frutto delle politiche fiscali ordo-liberali imposte dalla Troika, ma la conseguenza del prolungato degrado economico e civile prodotto dai diversi governi greci, succedutisi nel corso degli anni.

La Troika avrebbe dovuto fin da allora (2010) prendere atto della situazione, dilazionare il pagamento del debito in 60 anni dopo un congruo periodo di preammortamento, a tassi di favore, (come solo ora propone il capo economista del FMI, Olivier Blanchard); e contemporaneamente stanziare nuove consistenti risorse per finanziare un Piano di investimenti diretti a rilanciare l’economia produttiva, ridurre la disoccupazione ed attuare un piano di riforme volte a rendere la Grecia uno Stato serio e moderno.

La proposta avanzata ora da Thomas Piketty, di lanciare una sorta di Piano Marshall rivolto ai paesi dell’Eurozona gravati da debiti insostenibili, avrebbe dovuto essere rivolta allora alla Grecia, per garantire una nuova ripartenza dell’economia greca sulla base di una forte condizionalità (relativa all’efficienza delle pubblica amministrazione, alla fiscalità equa e all’economia aperta) insita nella stessa concezione strategica del modello di Piano Marshall evocato.

Questa politica, neppure eccezionalmente gravosa per l’Eurozona – stante la diimensione dell’economia greca che rappresenta appena il 2% del PIL europeo e il 3% del debito dell’Eurozona – rimane tuttora la soluzione da adottare nell’attuale, ancora più deteriorata (rispetto al 2010), situazione dell’economia greca.

Questa politica consentirebbe (come avrebbe consentito, allora) la selezione di una classe politica più adeguata al compito di rifondare lo Stato ellenico nel quadro di una effettiva cooperazione europea, coerente con lo spirito e la lettera dei Trattati.

Le inflessibili politiche di austerità imposte alla Grecia dal Consiglio nell’Eurozona, nell’ossessione del ripagamento del debito pregresso, hanno pesantemente alimentato il risentimento nazionalista e l’orgoglio patriottico del Paese povero e piccolo, umiliato dai Paesi ricchi e grandi, che ha portato a votare NO al recente referendum anche una gran parte di greci sicuramente europeisti e desiderosi di rimanere nell’Eurozona, come lo stesso Tsipras ha riconosciuto.

Nonostante tutto, dobbiamo continuare a sperare che la Grecia possa rimanere nell’Eurozona, perché l’ondata di risorgente nazionalismo e populismo che deriverebbe da una sua uscita, coinvolgerebbe tutti i Paesi europei, trasformando il danno in tragedia. Poiché è chiaro che all’uscita della Grecia dall’Euro seguirebbe, inevitabilmente, la lenta dissoluzione della moneta unica e della stessa UE.

Il compromesso raggiunto ieri tra l’Euro Summit e la Grecia, migliore – grazie anche all’impegno negoziale del governo italiano – di quanto facesse temere il pre-accordo dell’Eurogruppo, contiene segnali incoraggianti sul rilancio degli investimenti, frutto del tenace lavoro della Commissione Juncker. Ma se on si farà di più e presto rischia di essere di corto respiro, incontrando le stesse difficoltà che si sono presentate dal 2010 ad oggi.

Contemporaneamente a questo compromesso, l’UE deve quindi affrontare subito un nuovo cantiere di vitale importanza: quello del rafforzamento delle sue istituzioni. Non si può avere una moneta comune a 19 Stati i quali attuano politiche indipendenti, solo debolmente coordinate e presentano andamenti economici tra di loro notevolmente divergenti. L’Eurozona deve darsi un governo comune controllato dal Parlamento Europeo, dotato di un bilancio autonomo, integrativo a quello dell’UE, basato su risorse proprie e su una propria capacità di indebitamento.

Infine, entro la fine della legislatura, è necessario adeguare i Trattati esistenti per assicurare alle istituzioni europee maggiore democraticità e capacità d’azione. È necessario cioè riprendere il filo dell’interrotta costruzione europea, che porti a una nuova Costituzione tra i Paesi che lo vorranno.

* Presidente del Centro Studi sul Federalismo

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