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Il Tribunale Costituzionale spagnolo torna a dire no alla Catalogna

Anna Mastromarino
Commento n. 57 - 22 giugno 2015

 

Mentre Artur Mas, presidente della Generalitat de Catalunya, punta a trasformare le elezioni regionali del prossimo settembre in un plebiscito popolare a sostegno del progetto indipendentista catalano, lo scorso 11 giugno, ancora una volta, il Tribunale costituzionale spagnolo è tornato a pronunciarsi sulle vicende che da mesi mantengono alta la tensione nelle relazioni fra Madrid e Barcellona. E lo ha fatto dichiarando l’incostituzionalità delle «actuaciones de la Generalitat de Cataluña relacionadas con la preparación del llamado “proceso de participación ciudadana”» culminato nella consultazione popolare del 9 novembre scorso.

La decisione merita attenzione, per almeno due ordini di ragioni. L’uno di stretto diritto; l’altro di natura politico-costituzionale. 

La prima peculiarità è rappresentata dall’oggetto del ricorso. Lo scorso febbraio, con sentenza 31/2015, sciogliendo la riserva attorno alla sospensione della sua efficacia dichiarata pochi giorni prima del 9 novembre, il Giudice delle leggi spagnolo si era definitivamente pronunciato circa l’illegittimità costituzionale della consultazione indipendentista indetta con decreto dal governo.

In assenza di altri atti giuridici e formali su cui fondare un nuovo ricorso concernente le procedure di consultazione comunque espletate il 9 novembre (nessun atto giuridico formale aveva sino a quel momento potuto salvarsi dalle ripetute dichiarazioni di incostituzionalità della Corte), al governo Rajoy non è restato che passare “dalle parole ai fatti”, e non solo in senso metaforico. Non essendoci atti giuridici emessi ufficialmente dalle istituzioni comunitarie, ad essere impugnati sono stati quell’insieme di azioni e comportamenti che, nonostante la sospensione, sono stati adottati dal Governo catalano al fine di organizzare e realizzare una consultazione popolare che, lungi dal poter pretendere di avere effetti giuridici, potesse rappresentare simbolicamente un momento di espressione della volontà popolare. Ed in particolare: i contenuti del sito www.participa2014.cat, la creazione di un registro di votanti, le istruzioni assegnate ai volontari che hanno reso possibile la realizzazione della consultazione, la predisposizione di regole per il voto, la messa a disposizione di locali pubblici. Nonostante l’organizzazione sia stata affidata interamente alla società civile, è risultato sin da subito chiaro che ognuna delle iniziative elencate poteva essere ricondotta al Governo catalano, dimostrando il coinvolgimento in prima persona delle istituzioni autonomiche nella vicenda.

La dichiarazione di incostituzionalità si fonda su un duplice profilo: sulla mancata competenza della Comunità catalana a indire una consultazione, di qualunque tipo, formale o informale, referendaria o meno, su materie che non sono ad essa attribuite dalla Costituzione o dallo Statuto, nonché sulla lesione degli articoli 1.2, 2 e 168 della Costituzione, violati ogni qual volta è avviato un processo di partecipazione popolare, anche privo di immediati effetti giuridici, che mira a sondare l’opinione di una parte soltanto della popolazione su temi che di fatto riguardano l'intero popolo spagnolo. 

In particolare, il tenore delle domande poste il 9 novembre (“Quiere que Cataluña se convierta en un estado?; Quiere que este estado sea independiente?”), non avrebbe lasciato dubbi, a parere del Tribunale costituzionale, circa la natura sostanzialmente costituente della consultazione. Esse infatti porrebbero «una cuestión que afecta al orden constituido y también al fundamento mismo del orden constitucional», incidendo su «cuestiones fundamentales resueltas con el proceso constituyente e que resultan sustraídas a la decisión de los poderes constituidos». Le domande pertanto presupporrebbero «un reconocimiento indirecto al pueblo de Cataluña de unas atribuciones» che risultano in contrasto con il dettato costituzionale.

La Corte richiama ampiamente la sua precedente giurisprudenza sul punto, ricostruendo a partire dalle sue pronunce gli eventi degli ultimi anni. Ne risulta una sentenza monolitica, inflessibile nel suo procedere: nessun voto dissenziente, nessuna riserva.

Non vede soluzioni alternative la Corte. Lo va ripetendo dalla sentenza 31/2010, quando pronunciandosi sullo statuto ricordava che è tempo per chi voglia riformare il tipo di Stato spagnolo di mettere mano al procedimento di revisione costituzionale; lo ha ribadito nella sentenza 42/2014, teorizzando l’ormai noto derecho a decidir del popolo catalano.

Rebus sic stantibus, alcune perplessità di natura politico-costituzionale appaiono lecite. Ed in effetti: assodato che se uno Stato composto per potersi dire davvero plurale e sostanzialmente orientato al modello federale non può mancare di coinvolgere le sue entità subnazionali al momento di ripensare il patto costituzionale, ed ammesso che la Spagna voglia proseguire ed implementare il proprio cammino verso il decentramento, quale sarà la tribuna dalla quale le istituzioni e le popolazioni delle comunità territoriali potranno far sentire democraticamente la loro voce, se è inibito loro avviare qualsivoglia processo di partecipazione popolare volto a sondare possibili e praticabili soluzioni per il futuro dell’ordinamento spagnolo?

Forse in Spagna, dopo un periodo di silenzio, è venuto il momento per la politica di riprendere la parola, di riavviare un dialogo fra le parti, sollevando la giurisprudenza costituzionale dalla pesante funzione di supplenza cui è stata obbligata negli ultimi anni.

* Ricercatrice di Diritto Pubblico Comparato, Università di Torino

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