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Il federalismo fiscale in mezzo al guado

Stefano Piperno
10 giugno 2015

 

Il processo di decentramento politico-fiscale avviato nel paese dal 2009 con la legge n.42/09, attuativa dell’art.119 della Costituzione, si è sviluppato in un contesto di grave crisi economico-finanziaria che ne ha pesantemente condizionato la realizzazione.

Da un lato, infatti, è proseguito formalmente il processo di implementazione della 42/09, con l’aggiustamento dei contenuti di alcuni decreti delegati. Negli ultimi anni questi sono stati però sottoposti a modifiche pasticciate, tra le quali il caso più eclatante è stato quello relativo alla imposta municipale sugli immobili, che ha seminato lo sconcerto tra i contribuenti (e i Comuni) offrendo facili appigli ai denigratori del decentramento fiscale.

Dall’altro, questo processo è stato snaturato da una legislazione "emergenziale" che ne ha anche formalmente rinviato l’attuazione lasciando il nuovo assetto in mezzo al guado e, di conseguenza, le amministrazioni locali nell’incertezza.

Stupisce allora che valutazioni ufficiali come quelle espresse nell’ultima Relazione semestrale della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale (l’organo parlamentare incaricato di accompagnare, valutare e promuovere il percorso attuativo della 42/09) del 28 aprile 2015 non abbiano avuto una sufficiente eco:

"La maggior parte degli interventi relativi al federalismo fiscale, già in concomitanza con l’esercizio della delega legislativa, hanno assunto un carattere derogatorio rispetto ai principi contenuti nella legge delega, a partire dai tagli delle risorse oggetto di fiscalizzazione. La crisi economica e finanziaria ha infatti imposto una serie di misure fortemente ispirate da esigenze di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento dell’autonomia degli enti territoriali. In questo modo, indipendentemente da quanto previsto dalla legge n.42, si è protratta (e tuttora si protrae) una lunga fase transitoria che impedisce il pieno dispiegamento dei principi costituzionali e favorisce l’adozione di provvedimenti contingenti, legittimati proprio dalle eccezionali circostanze in cui versano l’economia nel suo complesso e le finanze pubbliche" (Relazione, pp.11-12).

A questa severa diagnosi non fa però seguito una chiara identificazione degli interventi necessari al rilancio del processo. Vi sono invece almeno tre ordini di considerazioni dalle quali occorrerebbe ripartire per affrontare in maniera seria e organica la questione del federalismo fiscale.

In primo luogo, vi è un problema di coerenza sistemica e sequenziale del processo di riforme in corso. L’agenda politica degli ultimi due governi (Letta e Renzi) ha messo in primo piano il tema della riforma dell’organizzazione territoriale del governo locale – che ha trovato sbocco nella legge Delrio, n.56/2014 – e delle modifiche costituzionali in direzione di un superamento del bicameralismo perfetto – con la creazione di un Senato delle autonomie, e una ulteriore revisione del titolo V – senza cogliere le strette interconnessioni che queste trasformazioni hanno con la legge n.42/09 e che si sarebbero peraltro dovute affrontare con l’attuazione di una delega specifica, contenuta nel comma 97 dell’articolo unico della legge n.56/14. Lo stesso processo di riorganizzazione funzionale delle Province ha messo in luce le gravi incongruenze che si sono manifestate nella sequenza dei provvedimenti finanziari necessari per garantire una transizione graduale ed efficace verso i nuovi assetti.


In secondo luogo, vi è un problema di risorse e di modalità di loro ripartizione tra i diversi livelli di governo, pur nella consapevolezza che le amministrazioni locali rappresentano una componente fondamentale del sistema di finanza pubblica che non può risultare immune dalle politiche di revisione della spesa. La legislazione "emergenziale" del periodo 2010-2015 ha però pesantemente ridotto le risorse disponibili per i governi territoriali, sia a monte (trasferimenti) sia a valle (vincoli al Patto di Stabilità Interno), generando effetti negativi soprattutto sulle spese in conto capitale, e, quindi, sulla crescita. Specularmente, si è ridotto ai minimi termini il processo di fiscalizzazione dei trasferimenti erariali, che avrebbe dovuto rendere più certo e prevedibile il flusso di risorse per i governi sub-nazionali agganciandole all’evoluzione dei principali tributi erariali. Nello stesso tempo, le regole del Patto interno di stabilità sono risultate continuamente mutevoli e non coerenti con i criteri di computo dei saldi di bilancio a livello europeo penalizzando gli enti più virtuosi. In questo modo si sono abbattuti due pilastri del federalismo fiscale: garantire la certezza e l’adeguatezza delle risorse degli enti subnazionali.

In terzo luogo, ma non certo in ordine di importanza, l’immagine del federalismo e del decentramento, per lungo tempo tra le priorità nell’agenda politica dei principali partiti (basta riguardare le piattaforme politiche per le elezioni del 2008), si è appannata ed è stata sostituita da una posizione critica sui costi della politica, sugli sprechi e sulla corruzione che hanno visto le amministrazioni locali, in particolare le Regioni, come bersagli preferiti. La migliore risposta dovrebbe però essere non tanto una acritica ricentralizzazione, quanto una "buona decentralizzazione", al cui interno immaginare anche spazi di regionalismo differenziato. Una riforma che potrebbe essere inserita in maniera esplicita nei futuri programmi nazionali di riforma dell’Italia.

Recenti orientamenti di politica economica a livello nazionale ed europeo non mostrano adeguata attenzione per tali questioni sia in termini di analisi che di indicazioni di policy. Da dove partire, allora? La risposta è quella di prendere sul serio il binomio tra responsabilizzazione e decentramento sapendo che un sistema fiscale decentrato richiede comunque un forte coordinamento, come ci insegnano proprio i sistemi federali. Strumenti procedurali e istituzionali per il coordinamento della finanza pubblica e architettura del sistema dei controlli sono quindi due ambiti di intervento da affrontare prioritariamente. L’ampliamento dei poteri statali nell’esercizio della competenza sul "coordinamento della finanza pubblica" è però stato eccessivo, riducendo con varie modalità gli ambiti di autonomia regionale e locale, e deve essere esercitato con nuovi modelli istituzionali di cooperazione, che agiscano in maniera trasparente (che fine ha fatto la Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica, formalmente istituita nel 2014?). Ugualmente, il sistema dei controlli basato sui premi e sanzioni per le amministrazioni locali non si è tradotto ancora in procedure e atti concreti, anche se è cresciuto molto il ruolo delle sezioni regionali della Corte dei Conti.

Un’agenda per il futuro dovrebbe affrontare in maniera organica i pilastri del percorso attuativo del federalismo fiscale: assetto dei tributi locali a regime, anche per quello che concerne la loro gestione; completamento della metodologia basata su costi, fabbisogni standard e capacità fiscale per definire un modello di perequazione applicabile; messa a regime delle basi dati e loro apertura completa al pubblico; sblocco del federalismo demaniale; attuazione coordinata del principio di pareggio di bilancio per tutti gli enti territoriali, con conseguente superamento delle regole del patto di stabilità interno; omogeneizzazione contabile per i bilanci degli enti territoriali; modelli trasparenti e inclusivi di coordinamento (ovviamente all’interno del disegno di riforma costituzionale).

* Collaboratore del Centro Studi sul Federalismo

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